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Storia della letteratura italiana/Alessandro Manzoni

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Indice del libro
Storia della letteratura italiana
  1. Dalle origini al XIV secolo
  2. Umanesimo e Rinascimento
  3. Controriforma e Barocco
  4. Arcadia e Illuminismo
  5. Età napoleonica e Romanticismo
  6. L'Italia post-unitaria
  7. Prima metà del Novecento
  8. Dal secondo dopoguerra a oggi
Bibliografia

Nella letteratura italiana ottocentesca, Alessandro Manzoni occupa un ruolo di primissimo piano. Con le sue opere ha innovato la cultura italiana, all'epoca ancorata al culto della tradizione classica, introducendo nella penisola una letteratura moderna, borghese e attenta alle suggestioni provenienti dagli altri paesi europei, e in particolare da quelle che arrivavano dagli intellettuali romantici. Tra i suoi scritti, il più celebrato è senza dubbio il romanzo I promessi sposi. Con esso Manzoni pone le basi anche in Italia per la diffusione di un genere nuovo, quello del romanzo realistico moderno, che conoscerà larga fortuna nell'Ottocento e poi nel Novecento. Tuttavia, dopo questa grande opera la fase creativa dello scrittore si esaurirà: Manzoni maturerà un atteggiamento negativo nei confronti della letteratura, e dal 1827 alla morte si dedicherà unicamente alla linguistica, alla storiografia e alla filosofia.

Alessandro Manzoni nel celeberrimo ritratto eseguito da Francesco Hayez (1841). Pinacoteca di Brera, Milano

Alessandro Manzoni nasce a Milano il 7 marzo 1785, figlio del conte Pietro e di Giulia Beccaria. Suo nonno materno era Cesare Beccaria, autore del trattato Dei delitti e delle pene e importante esponente dell'Illuminismo lombardo. I genitori tuttavia divorziano presto, e Alessandro trascorre la giovinezza presso collegi religiosi retti da padri barnabiti e somaschi. Qui riceve una formazione classica, ma sviluppa anche avversione per il rigido ambiente in cui viene educato. Quando a sedici anni esce dal collegio, Milano è sotto il controllo di Napoleone. Frequenta gli ambienti culturali della città: conosce Foscolo, Monti, i transfughi napoletani Cuoco e Lomonaco, e in generale conduce una vita gaudente e spensierata.

Nel 1805 si trasferisce a Parigi, dove vive la madre. Nella capitale francese il giovane Manzoni approfondisce il rapporto con la madre ed entra in contatto con i cosiddetti "ideologi", un gruppo di intellettuali eredi della tradizione illuministica. La loro influenza, e in particolare l'amicizia con Fauriel, avrà un ruolo determinante nella formazione delle sue idee politiche, filosofiche e morali. Si avvicina inoltre al giansenismo, che inciderà sulla sua conversione religiosa e il suo ritorno al cattolicesimo. Su questo ha probabilmente influito anche l'esperienza di sua moglie, Enrichetta Blondel, che aveva abbandonato il calvinismo per passare alla Chiesa di Roma.[1]

Nello stesso periodo della conversione, Manzoni soffre anche le prime crisi nervose, che lo accompagneranno per tutta la vita. Tornato a Milano nel 1810, inizia una nuova fase della sua produzione letteraria. Se in precedenza aveva composto poesie secondo un stile classicheggiante, ora la sua attività intellettuale è influenzata dal nuovo punto di vista abbracciato dopo la conversione. Tra il 1812 e il 1815 lavora agli Inni sacri, le prime di una serie di opere di orientamento romantico, in cui sono centrali i temi della religione e della storia. Intanto conduce una vita appartata, dedita all'amministrazione dei suoi beni, alle pratiche religiose e agli affetti familiari. Si avvicina al gruppo dei romantici milanesi, ma senza partecipare attivamente ai loro dibattiti. Allo stesso modo, segue con favore i moti per l'indipendenza di Milano dall'Austria, ma senza mai prendere posizione pubblicamente.

Gli anni venti sono il periodo di maggior fervore creativo: scrive le odi civili, la Pentecoste, le tragedie e altre opere. Tra queste c'è il romanzo storico I promessi sposi, che sarà pubblicato nel 1827. Dopo di allora, però, Manzoni si distacca dal romanzo e in generale dalla letteratura, considerata falsa e contrapposta al vero storico. Si dedica così a studi di carattere storico, filosofico e linguistico, e stringe amicizia con il filosofo cattolico Antonio Rosmini. Nel 1840 pubblica la terza edizione dei Promessi sposi, sottoposta a una revisione linguistica generale.

Gli ultimi anni sono segnati da vari lutti, dovuti alle morti della moglie e di alcuni figli. Attorno alla sua figura di intellettuale si forma un'aura di ammirazione, e la borghesia nazionale lo venera come una guida intellettuale e morale. Nel 1848, durante le Cinque giornate di Milano, dà alle stampe Marzo 1821, un'ode patriottica rimasta fino ad allora inedita. Nel 1860, con la nascita del Regno d'Italia, viene nominato senatore. Pur cattolico, è contrario al potere temporale del papato e favorevole all'annessione di Roma all'Italia. Quando ciò avverrà nel 1872, Manzoni accetta la cittadinanza onoraria di Roma che gli veniva offerta, una decisione che genera scandalo tra i cattolici più conservatori. Muore a Milano il 22 maggio 1873. La sua tomba è collocata al centro del Famedio nel cimitero monumentale della città.[2]

Prima della conversione

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Il giovane Alessandro Manzoni nel 1805, in un ritratto di un anonimo inglese

Manzoni inizia a comporre poesie a sedici anni, appena uscito dal collegio. Sono opere che risentono del gusto neoclassico dell'epoca: sono scritte con un linguaggio aulico e ricche di richiami alla mitologia. La prima di queste prove è il Trionfo della libertà, una visione allegorica in terzine che prende a modello le opere di Vincenzo Monti (il poeta che all'epoca godeva della massima fama). Al clima culturale del periodo sono riconducibili anche i temi affrontati: l'esaltazione della rivoluzione francese, la condanna della tirannia politica e religiosa, ma anche l'amarezza per il tradimento degli ideali rivoluzionari da parte di Napoleone.[3]

Le opere successive sono il poemetto idillico Adda, indirizzato a Monti, e quattro Sermoni in cui, prendendo a modello Parini, polemizza contro i costumi del tempo. Al 1805 risale il Carme in morte di Carlo Imbonati, scritto in seguito alla scomparsa dell'uomo con cui la madre aveva convissuto dopo la separazione dal marito, e che Manzoni amava quasi fosse suo padre. Il poeta immagina che Imbonati gli appaia in sogno per dargli consigli sulla vita e sulla poesia. Si affaccia qui la figura del «giusto solitario», il quale fugge davanti al caos della storia contemporanea e si rinchiude aristocraticamente nella propria solitudine, coltivano la virtù e la letteratura. È possibile qui riconoscere l'influenza di Foscolo e Alfieri, ma vi si può anche vedere un'anticipazione delle opere successive di Manzoni e del suo ideale, secondo cui la scrittura deve essere sorretta da un ferreo rigore morale ("Sentir [...] e meditar": "il santo Vero mai non tradir").

Il poemetto Urania, del 1809, affronta un tema tipico del neoclassicismo, quello cioè degli uomini primitivi educati alla civiltà dalle Muse. Segue A Parteneide, con cui si scusa con il poeta danese Baggesen per non avere tradotto il suo idillio borghese Parthenais. Negli stessi anni però Manzoni matura un distacco da questi temi e da questo tipo di produzione. Avverte ormai l'esaurimento dei modelli neoclassici e sente la necessità di dedicarsi a una letteratura nuova. Trascorrerà quindi tre anni senza scrivere niente, dopo i quali inizierà a comporre gli Inni sacri.[4]

La conversione e la nuova concezione della storia

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La conversione al cattolicesimo segna una svolta non solo nella vita ma anche nella produzione letteraria di Manzoni. Lo scrittore manterrà uno stretto riserbo sui motivi di questo suo cambiamento. Certo è che il nuovo orizzonte di valori da lui abbracciato trasformerà nel profondo la sua personalità e la sua opera.

Manzoni giunge al cristianesimo dopo una complessa crisi interiore di cui è impossibile ricostruire le fasi. Quella a cui approda è una fiducia assoluta nella religione come fonte del bene, del bello e del vero, come ineludibile punto di riferimento per l'agire politico e morale. Questa posizione è alla base delle Osservazioni sulla morale cattolica (1819), nelle quali Manzoni risponde alle tesi del ginevrino Simonde de Sismondi, che nella sua Storia delle repubbliche italiane nel Medioevo accusava la morale cattolica di essere la causa della corruzione italiana.[4]

Nella concezione manzoniana diventa centrale il tema della caduta e del peccato. Da ciò scaturisce una visione tragica del reale, secondo cui il male è radicato nel mondo e l'uomo è irrimediabilmente debole e incline al peccato. In questo contesto, la serenità e l'elegante distacco della poesia classica non sono più possibili. Manzoni ha quindi l'esigenza di una nuova letteratura che non risponda a un mero bisogno di evasione ma che guardi al «vero storico». L'arte deve scaturire da un bisogno profondo e deve affrontare temi che toccano sul vivo la coscienza, deve proporsi di trattare l'utile nel campo della morale e in quello civile.[5] Come scriverà in una lettera a Cesare D'Azeglio nel 1823, la letteratura deve avere «l'utile per iscopo, il vero per soggetto e l'interessante per mezzo».

Con l'approdo al cristianesimo viene messa in discussione anche la concezione che Manzoni ha della storia. In precedenza lo scrittore aveva accettato l'interpretazione tradizionale secondo cui la cultura moderna discende direttamente dal mondo romano. Quest'ultimo era quindi considerato come un modello per i moderni, a cui ci si doveva conformare. Ora però Manzoni ha un'opinione completamente antitetica: la civiltà romana era tutt'altro che un modello di virtù, in quanto dedita ai soprusi, alla violenza e alla sottomissione. A questo fa riscontro un nuovo interesse per il Medioevo, in cui Manzoni ravvisa la vera origine della cultura moderna. Rinnegando la superiorità della civiltà classica, rinnega anche la concezione aristocratica che celebra gli eroi, i potenti e i vincitori. Da qui scaturisce la volontà di parlare nelle sue opere degli umili, dei vinti e di tutti coloro che vengono dimenticati dalla storia ufficiale.[4]

La produzione manzoniana della fase successiva alla conversione si concentra su tre generi fondamentali: la lirica, la tragedia e il romanzo. Le sue opere presentano dei caratteri di innovazione, in netta rottura con lo stile neoclassico fino ad allora in voga. Per quanto riguarda in particolare la lirica, è possibile distinguere tra componimenti dedicati a temi religiosi (gli Inni sacri) e componimenti di argomento civile (le Odi).

Gli Inni sacri

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Composti tra il 1812 e il 1815, gli Inni sacri sono la prima opera scritta dopo la conversione. Manzoni aveva progettato un ciclo di dodici inni, che dovevano trattare le principali festività del calendario liturgico. Ne scrive però solo quattro, che sono pubblicati nel 1815:

  • La Resurrezione,
  • Il Natale,
  • La Passione,
  • Il nome di Maria.

Per queste liriche Manzoni trae i suoi modelli dall'innografia antica cristiana, e anche i materiali sono ripresi dalla tradizione (Vangeli, scritti dei padri della Chiesa, oratori sacri francesi del XVII secolo). In tutti e quattro gli inni si ripresenta la medesima struttura: enunciazione dell'argomento, episodio centrale, commento su aspetti morali e dottrinali.

Nel 1822 Manzoni termina un quinto inno, dedicato alla Pentecoste, cioè la festa che ricorda la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli cinquanta giorni dopo la Resurrezione di Cristo. La sua gestazione è più complessa: iniziato insieme agli altri, viene accantonato per un certo tempo e poi più volte riscritto. Questo lungo susseguirsi di ripensamenti fa sì che La Pentecoste abbia una struttura diversa dai precedenti inni. Il poeta parla delle trasformazioni indotte dallo Spirito Santo con la sua venuta, senza però insistere sugli aspetti dottrinali, e l'inno si chiude con un'invocazione affinché lo Spirito ritorni ancora una volta tra gli uomini.

In generale, negli Inni sacri sono già riconoscibili alcuni caratteri di novità rispetto alla letteratura neoclassica, e la loro stesura precede la polemica classico-romantica, che esploderà solo nel 1816. Abbandonati definitivamente i temi ripresi dalla mitologia classica, visti come qualcosa di "falso", Manzoni si orienta verso una poesia più "popolare", che vuole trattare ciò che è sentito dalla massa delle persone. Si tratta quindi di componimenti dal carattere corale, in cui il poeta mette da parte il suo egocentrismo per diventare un interprete della coscienza cristiana. Utilizza metri come i settenari, gli ottonari e i decasillabi, versi lontani dalla solennità dell'endecasillabo classico e che danno alla composizione un ritmo incalzante, così da rendere il fervore popolare con cui viene celebrata la festività. Il poeta, in questo modo, sembra annullarsi all'interno della comunità dei fedeli. Allo stesso modo, vengono evitati termini troppo aulici, senza però abbassare eccessivamente il tono o avvicinarsi alla prosa.[6]

Anche nella lirica patriottica e civile sono ben visibili segnali di rottura rispetto all'immediato passato. Scompaiono anche qui i riferimenti alla cultura classica che avevano caratterizzato la poesia di Foscolo e Monti. Vengono invece affrontati fatti della contemporaneità, visti da una prospettiva religiosa.

Manzoni inizia a scrivere due canzoni, intitolate Aprile 1814 e Il proclama di Rimini, che però vengono presto abbandonate e rimangono incompiute. I moti del 1821 contro l'occupazione austriaca, e in particolare le Cinque giornate di Milano, gli ispirano l'ode Marzo 1821. Emerge qui la speranza che gli insorti lombardi possano congiungersi all'esercito sabaudo, e viene chiamato in soccorso lo stesso Dio: sottomettere un popolo, così come stanno facendo gli austriaci agli italiani, è infatti contrario alle sue leggi.

Allo stesso anno risale anche Il cinque maggio, dedicata alla morte di Napoleone. In questo caso, anche le gesta del generale francese sono valutate dalla prospettiva dell'eternità.[7]

Manzoni in un altro celebre ritratto, eseguito da Giuseppe Molteni (1835). Accademia di Brera, Milano

Anche nelle tragedie Manzoni compie una rottura con la tradizione. Anzitutto sceglie di scrivere tragedie storiche, collocando le azioni dei suo personaggi in un contesto storico ben determinato. Inoltre rifiuta le unità aristoteliche di tempo, luogo e azione.

Il vero storico

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Nelle tragedie classicheggianti l'azione si collocava in un mondo assoluto, fuori dal tempo. Questo succedeva anche quando venivano trattati personaggi ed eventi storici. Gli autori erano inoltre attenti a rispettare le tre unità che Aristotele descrive nella sua Poetica riferendosi a Eschilo e Sofocle: l'azione doveva essere unitaria, doveva svolgersi nell'arco di una giornata e non erano previsti mutamenti di scena.

Manzoni prende le distanze da tutto questo. Le sue tesi a riguardo sono esposte in un saggio in francese intitolato Lettre à M. Chauvet sur l'unité de temps et de lieu dans la tragédie. Si tratta di una risposta al critico Joseph-Joachim Chauvet, che lo aveva accusato di non rispettare le unità aristoteliche, e fu pubblicata nel 1822 insieme alle due sue tragedie tradotte in francese da Fauriel. In precedenza, le sue riflessioni erano state raccolte in forma di appunti nei Materiali di estetica (rimasti incompiuti) e nella prefazione alla sua prima tragedia, Il conte di Carmagnola.

Manzoni sostiene che il fine del suo teatro non è inventare fatti per adattarvi dei sentimenti, ma piuttosto spiegare i sentimenti che hanno provato i personaggi storici in un determinato contesto. La storia rappresenta in assoluto il più ricco e affascinante repertorio di fatti. Il poeta quindi non deve inventare nuovi soggetti drammatici, ma solo attenersi al fatto storico, senza prendersi la libertà di rivederlo, ma limitandosi a usare l'invenzione per investigare i sentimenti dei personaggi. In ultima analisi, è questo uso dell'invenzione l'elemento che distingue il poeta dallo storico.

L'interesse per i fatti storici come soggetti tragici è probabilmente stato generato in Manzoni dalla lettura dei drammi storici di William Shakespeare, un autore poco amato dai classicisti ma esaltato dai romantici. A questo si aggiungono le suggestioni provenienti dalle tragedie storiche di Schiller e Goethe (che si erano a loro volta ispirati a Shakespeare), e dal Corso di letteratura drammatica di Wilhelm August von Schlegel.[8]

Alla base del rifiuto delle unità aristoteliche c'è il culto del vero. L'azione non può essere chiusa dentro limiti di tempo e spazio così stretti. Simili costrizioni inducono il poeta a esasperare i sentimenti così da contenere gli avvenimenti nell'arco della giornata. Per questa forzatura artificiosa che si riscontra nella tragedia classica Manzoni usa il termine di "romanzesco". Il vero può essere riprodotto solo a patto che ci si liberi da questi vincoli. Ciò rende possibile la costruzione di caratteri autentici, che possono essere ritratti in tutte le loro sfumature. Inoltre, gli artifici della tragedia classica possono indurre gli uomini ad applicare anche nella loro vita i sentimenti falsi visti a teatro. Manzoni invece, orientato al rigore morale, si preoccupa delle conseguenze del suo teatro sulle coscienze degli spettatori, e un teatro ispirato al vero può avere, secondo lui, solo influssi positivi.[9]

Il conte di Carmagnola

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Il conte di Carmagnola è la prima tragedia di Manzoni, scritta tra il 1816 e il 1820. Il protagonista è Francesco Bussone, un capitano di ventura del Quattrocento che dapprima combatté al servizio del duca di Milano e che poi passò alla Repubblica di Venezia. In seguito fu artefice della vittoria della Serenissima su Milano nella battaglia di Maclodio. La sua clemenza nei confronti dei prigionieri di guerra tuttavia gli attirò addosso l'accusa di tradimento. Incarcerato, venne giudicato colpevole e giustiziato.

Manzoni credeva nell'innocenza di Bussone (oggi smentita dagli storici), e su questa base scrive la sua tragedia. Il capitano di ventura è dunque un uomo dall'animo elevato, che si scontra con la ragion di stato e con gli intrighi politici. L'opera ruota attorno a uno dei temi chiave della poetica manzoniana, l'idea che la storia umana sia segnata dal trionfo del male. A questo si oppongono spiriti puri come Bussone, che però finiscono per esserne sconfitti.[10]

Un'altra novità introdotta da Manzoni nelle sue tragedie è il coro, che però ha una funzione diversa da quella che aveva nel teatro greco. Nelle tragedie classiche il coro rappresentava la voce di uno spettatore ideale, una personificazione dei sentimenti che l'azione doveva generare. Il coro manzoniano è invece un angolo riservato all'autore, in cui può esprimere in prima persona e in forma lirica il suo punto di vista sugli eventi tragici.[11] Il coro del Conte di Carmagnola si avvicina all'ode Marzo 1821 ed è una critica alle lotte intestine tra il popolo italiano nel XV secolo. Il passato storico viene quindi guardato da una prospettiva politica, diventa occasione per parlare del presente e della lotta risorgimentale.[8]

Ermengarda sostenuta dalla sorella Ansperga e da due donzelle. Raffigurazione contenuta in un volume di opere manzoniane pubblicato dai Fratelli Rechiedei, Milano 1881

Se Il conte di Carmagnola rimane un primo tentativo non completamente riuscito, maggiore forza drammatica ha l'Adelchi (1822). La tragedia è ambientata nell'VIII secolo, negli anni in cui il regno longobardo di Desiderio in Italia crollò sotto la spinta dei Franchi di Carlo Magno. Manzoni era in particolare affascinato dalla sorte dei Latini, che passarono dall'oppressione longobarda a quella dei Franchi. Gli studi storici compiuti dall'autore per scrivere l'opera confluiranno poi in un saggio, intitolato Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia.

L'azione ruota attorno a quattro personaggi:

  • Desiderio, il re longobardo, vuole aumentare il suo potere e vendicarsi di Carlo Magno, che ha ripudiato sua figlia Ermengarda;
  • Adelchi, figlio di Desiderio, ambisce alla gloria ma non riesce a realizzare le sue imprese a causa dell'ingiustizia che regna nel mondo;
  • Ermengarda, figlia di Desiderio e moglie ripudiata di Carlo Magno, vuole distaccarsi dalle passioni mondane ma finisce per morire dilaniata dall'amore per il marito;
  • Carlo Magno, il re dei Franchi, reprime il rimorso per avere ripudiato Ermengarda affermandosi come difensore del papa aggredito dai Longobardi.

C'è quindi una contrapposizione tra i due re Desiderio e Carlo Magno, due politici che mirano al potere e agiscono in nome della ragion di stato, e i due fratelli Adelchi ed Ermengarda, due personaggi puri che proprio per questo motivo sono destinati alla sconfitta, in un mondo segnato dalla forza.[10]

Nell'Adelchi sono inseriti due cori. Il primo ricostruisce la storia dei Latini dell'VIII secolo, emblema di quelle masse ignorate dalla storia ufficiale. Il passato viene guardato in una prospettiva storica, con l'intento di ricostruire epoche ormai lontane; ma è anche un'occasione per parlare dei problemi presenti. C'è infatti un ammonimento agli italiani, i quali non devono affidarsi a forze straniere per liberare l'Italia.

Il secondo coro è invece dedicato alla morte di Ermengarda. Vengono ricostruiti i tormenti della donna che, ripudiata dal marito, cerca di mettere a tacere la sua passione amorosa. Alla fine sarà quest'ultima a vincere, ma Ermengarda trova una via di liberazione rivolgendosi all'eternità.[8]

I promessi sposi

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Su Wikibooks puoi leggere una versione commentata dell'opera I promessi sposi

L'opera manzoniana che ha però portato la maggiore innovazione nella letteratura italiana è I promessi sposi. Già la scelta di scrivere un romanzo è una novità, perché si trattava di un genere letterario che negli anni venti dell'Ottocento era guardato con disprezzo dai classicisti e giudicato inferiore. Per Manzoni, invece, il romanzo è lo strumento ideale da usare nella sua battaglia per il rinnovamento in chiave borghese ed europea della cultura italiana: consente infatti di rappresentare la realtà senza artifici, utilizza un linguaggio accessibile a molti e si rivolge a un pubblico più ampio rispetto a quello della classe intellettuale colta. All'interno della narrazione è possibile inoltre inserire riflessioni filosofiche e cognizioni di vario tipo, contribuendo a informare il lettore di notizie storiche, principi morali e idee politiche. Ciò risponde pienamente alla vocazione di Manzoni di coniugare letteratura e impegno civile.[12]

Le fasi della composizione

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Lucia Mondella nella celebre illustrazione di Gonin per l'edizione del 1840

La scrittura dei Promessi sposi impegna Manzoni per vari anni, dal 1821 al 1840. Il romanzo conosce tre redazioni. Una prima versione, risalente al 1821-1823 e all'epoca rimasta inedita, è stata pubblicata solo un secolo più tardi con il titolo Gli sposi promessi. In seguito però gli studiosi hanno preferito rinominarla Fermo e Lucia, una scelta maggiormente in linea con l'impostazione manzoniana.

Una seconda edizione viene pubblicata nel 1827 con il titolo definitivo: I promessi sposi. A questa segue una terza edizione, quella che viene letta ancora oggi, pubblicata nel 1840. Tra queste due edizioni passano tredici anni, durante i quali Manzoni si dedica a una revisione linguistica della sua opera. L'autore modifica alcuni termini e alcuni costrutti, coerente all'ideale della fiorentinità della lingua a cui era giunto.

Più marcate sono invece le differenze tra queste due edizioni e il Fermo e Lucia, in particolare per quando riguarda l'intreccio e lo sviluppo di alcuni personaggi. In generale, è l'impostazione del racconto a essere diversa: Manzoni nel Fermo fa un uso maggiore di materiale non narrato, con digressioni di taglio saggistico sui fatti storici, i costumi dell'epoca, l'economia. Queste parti nei Promessi sposi verranno riproposte invece in forma drammatica. Inoltre, nel Fermo sono presenti critiche e polemiche più secche, e anche la divisione tra bene e male è più netta.[13]

Struttura del romanzo

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Il romanzo è composto da 38 capitoli, e segue le vicende di due giovani fidanzati, Renzo Tramaglino e Lucia Mondella. La storia inizia sulle rive del lago di Como, ma in seguito si sposta tra Milano, le zone a ovest dell'Adda e la Bergamasca.

Trama

A pochi giorni dalla data prevista, il matrimonio tra Renzo e Lucia viene mandato a monte dalle ingerenze di un signorotto locale, don Rodrigo, che si è incapricciato della ragazza e ha scommesso con il cugino Attilio di vincerne le ritrosie. Per questo motivo ha mandato due suoi bravi a minacciare il pavido curato don Abbondio, intimandogli di non celebrare il matrimonio. Lucia chiede aiuto al suo confessore, il padre Cristoforo, il quale decide di fare visita a don Rodrigo per convincerlo, senza successo, a rinunciare alla ragazza. In seguito, il cugino Attilio e il Conte zio faranno in modo che il frate sia allontanato e trasferito a Rimini. Intanto Lucia accetta di tentare un matrimonio clandestino. Il piano però fallisce: Renzo fugge, e lo stesso fanno Lucia e la madre Agnese dopo aver saputo che don Rodrigo sta architettando il rapimento della giovane. Lucia, sulla barca che attraversa il lago, pronuncia il celebre Addio monti. Lucia e Agnese riparano in un convento a Monza, dove trovano la protezione di una suora, la "signora" Gertrude. Renzo invece raggiunge Milano, dove è in corso un'insurrezione popolare. Esaltato per aver partecipato a una rivolta, Renzo si ubriaca in un'osteria e tiene discorsi contro i prepotenti. Viene però sentito da uno sbirro travestito che lo arresta in quanto sedizioso. Riuscito a scappare, attraversa l'Adda e si rifugia nel territorio della Repubblica di Venezia. Nel frattempo don Rodrigo, con l'aiuto di Egidio, amante di Gertrude, riesce a rapire Lucia dal convento. La ragazza è tenuta prigioniera nel castello dell'Innominato, un potente signore di cui non viene rivelato il nome, e pur di scampare al pericolo decide di fare voto di castità. La notte successiva al rapimento, però, l'Innominato ha una crisi spirituale e, la mattina dopo, l'incontro con il cardinale Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano in visita pastorale nella zona, lo convince a liberare Lucia. Per essere più sicura, la giovane viene trasferita a Milano, ospite in casa di donna Prassede e don Ferrante. Scoppia però la carestia del 1628-1629, a cui si aggiungono le incursioni dell'esercito tedesco nel Milanese. Molti personaggi muoiono per la peste del 1630: tra questi c'è anche don Rodrigo. Intanto, Renzo raggiunge la città lombarda e scopre che Lucia si trova al lazzaretto della città. Qui incontra padre Cristoforo, che gli mostra don Rodrigo morente e lo invita al perdono. Ritrova anche Lucia, e il frate scioglie il suo voto di castità. I due fidanzati possono quindi tornare al loro paese e sposarsi. Dopo le nozze, la famiglia si trasferisce nella Bergamasca, dove Renzo avvia una piccola attività tessile.

La vicenda di Renzo e Lucia è un'esplorazione di quanto c'è di negativo nella storia. Renzo in particolare lo sperimenta in ambito sociale e politico (si pensi alla rivolta a Milano), mentre Lucia nel campo morale. Questa esperienza negativa porta però a una maturazione dei personaggi, un elemento che rende I promessi sposi una sorta di romanzo di formazione. Il percorso è diverso per i due fidanzati. Renzo ha tutte le virtù che Manzoni riconosceva alla classe contadina, ma ha anche uno spirito ribelle ed è convinto che gli umili possano farsi giustizia da soli dei propri oppressori. Così però non può essere: la sua maturazione consiste nel lasciare queste velleità e nell'abbandonarsi completamente alla volontà di Dio. Lucia invece è prigioniera di una visione idealizzata della vita, secondo cui basta aver fede nella Provvidenza per evitare i guai. Ciò che le manca è l'esperienza dal male che è insito nella storia. Attraverso le varie vicissitudini, Lucia capirà che non può esistere il paradiso in terra e che anche la presenza del male nella realtà ha un suo senso religioso. Alla fine del romanzo entrambi i giovani comprendono che il mondo in cui viviamo è segnato dalla caduta e quindi dalla tragicità. Tuttavia le sventure patite insegnano che anche il male può avere un valore positivo e provvidenziale (la "provvida sventura" di cui parleremo più avanti).[14]

Il romanzo storico

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Si è detto che la scelta di scrivere un romanzo è una novità per la cultura letteraria italiana, ancora legata al neoclassicismo e al culto per una tradizione classica ormai esaurita e ridotta a mere convenzioni. Di contro, il romanzo è un genere nuovo che consente a Manzoni una grande libertà di espressione. Può, per esempio, infrangere le regole della tradizione e utilizzare uno stile elevato per trattare delle condizioni degli umili, di coloro che vengono dimenticati dalla storia ufficiale (nelle tragedie classiche, invece, lo stile sublime imponeva che i protagonisti fossero di estrazione nobile). Protagonisti del romanzo sono quindi due popolani della campagna lombarda, di cui vengono descritte con realismo le vicissitudini. Renzo e Lucia sono portatori delle virtù più alte per l'autore, ma comunque rimangono dei popolani e ne conservano la mentalità e la lingua. I personaggi sono immersi nella storia, e dalla tragicità che è insita in essa traggono la loro profondità. Ognuno di loro è in un rapporto organico con il contesto storico della narrazione, che non può quindi essere ignorato se si vogliono capire i loro pensieri e le loro azioni. Inoltre, mentre nella letteratura classica i personaggi rispondevano a tipi generali, Manzoni delinea degli individui unici e dalla psicologia complessa. Tutto questo fa sì che I promessi sposi possano essere considerati il primo romanzo realistico moderno della letteratura italiana.[15]

Manzoni sceglie inoltre la forma del romanzo storico, che in quegli anni stava avendo grande successo in Europa, soprattutto grazie alle opere di Walter Scott. Nei Promessi sposi viene ricostruito il contesto storico del Seicento, con grande attenzione per tutti gli aspetti della società, del costume, delle condizioni di vita. Per farlo si documenta scrupolosamente, consultando testi storiografici, opere letterarie, biografie, ma anche raccolte di leggi e cronache dell'epoca. Come nei romanzi di Scott, anche qui i protagonisti sono due personaggi inventati, di quelli che vengono solitamente ignorati dalla storiografia. I personaggi celebri e le vicende storiche compaiono sulla scena solo quando incidono sulla vicenda vissuta dai personaggi. In questo modo la storia viene osservata dal basso, dallo stesso punto di vista della gente comune. Tuttavia Manzoni rimprovera a Scott la scarsa attenzione per la ricostruzione storica e il ricorso all'invenzione. Questo scrupolo porta l'autore a impegnarsi affinché la vicenda narrata sembri una storia vera, riportata su un documento appena rinvenuto. Viene perciò respinto il "romanzesco", cioè la tendenza a costruire rapporti inattesi tra i personaggi o a inserire eventi che agiscono sulla vita di tutti - espedienti che, secondo Manzoni, non si accordano con quanto succede nella realtà.[16]

Il ruolo del narratore e l'ideologia manzoniana

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Renzo costringe don Abbondio a rivelare chi ha impedito il suo matrimonio con Lucia. Illustrazione di Gonin per l'edizione del 1840

La narrazione dei Promessi sposi ha per lo più un andamento piano, conversevole e bonario verso un ideale uditorio, a cui spesso la voce narrante si rivolge direttamente. Questa tonalità dominante è spesso venata di sottile ironia, aspetto tra i più felici del romanzo, ma anche per sua stessa natura impalpabile e difficile da definire. Si precisa che il narratore è esterno e onnisciente, con focalizzazione zero (ma in alcune occasioni anche interna).

L'ironia, se in generale implica un atteggiamento distaccato, può rivestire le funzioni più disparate. Nel romanzo c'è, per esempio, autoironia, cioè momenti in cui l'autore guarda sorridendo se stesso e la sua attività di scrittura. Così avviene, per esempio, nell'Introduzione in cui, dopo aver rinunciato a esporre i criteri di riscrittura del manoscritto secentesco perché andrebbero a formare un altro volume, Manzoni afferma: «Di libri basta uno per volta, quando non è d'avanzo», mettendo ironicamente in dubbio l'utilità della propria opera. In un altro punto, poi, allude ai "venticinque lettori" del romanzo, indicando con un'iperbole rovesciata il numero di coloro che suppone lo leggeranno. C'è dietro a queste mosse ironiche una sottile presa di distanza dalla letteratura, sentita come qualcosa che, pur mirando al "vero", rischia di diventare oziosa e inutile, confrontata alla ricostruzione storica, alla riflessione filosofica o all'attività pratica (in effetti lo scrittore, negli anni della maturità, rinuncerà all'esercizio della letteratura).

A volte l'ironia è rivolta all'ipotetico uditorio. Così, per esempio, verso la conclusione del romanzo, Manzoni si rifiuta di raccontare, attraverso il suo narratore, la vita tranquilla dei due sposi perché "seccherebbe a morte" il lettore. Qui si vede l'ironia verso i gusti di un pubblico che si aspetta eventi straordinari ed emozionanti; lo scrittore invece ripudia il romanzesco scadente e affida alla narrazione compiti più elevati.

L'ironia può anche essere diretta ai personaggi stessi del romanzo. Nei confronti dei personaggi del popolo segna la distanza del colto narratore dalla gente umile e sprovveduta, dai loro discorsi e dai loro comportamenti (ad esempio le comari pettegole come Agnese e Perpetua, o il sarto che si reputa un letterato perché ha letto qualche romanzo cavalleresco). È comunque un atteggiamento affettuoso, "paterno", che sottende la convinzione che nei personaggi umili, per quanti difetti abbiano, è contenuto un tesoro di umanità che nelle classi elevate è introvabile. L'atteggiamento ironico colpisce anche lo stesso protagonista, Renzo (ma mai Lucia, personaggio sublime agli occhi dello scrittore), a sottolinearne gli errori di "bravo ragazzo", ma talvolta impetuoso e imprudente. Talora l'ironia nei suoi confronti è affidata a commenti diretti del narratore, mentre in altri casi l'ironia scaturisce dal contrasto tra le parole di Renzo e la realtà effettuale degli eventi.

Per niente bonaria e indulgente è l'ironia verso don Abbondio, verso la sua pavidità e il suo egoismo. Questa mediocrità serve però da contrappeso a figure sublimi come l'Innominato o il cardinal Federigo, coerentemente con l'esigenza di calare sempre l'ideale nel reale. Lo si può verificare ad esempio nell'episodio della liberazione di Lucia a opera dello stesso Innominato appena convertitosi, oppure nel colloquio tra quest'ultimo e il cardinale.

Nei confronti degli umili l'ironia è sempre bonaria e paterna, ma nei confronti dei potenti si trasforma in sarcasmo impietoso. Come esempio si può citare il caso di Ferrer che, per salvare il vicario, inscena con la folla in tumulto un'ignobile commedia di false promesse. L'effetto sarcastico scaturisce soprattutto dall'uso dell'italiano per le promesse al popolo, e dello spagnolo negli a parte a bassa voce in cui Ferrer le smentisce.

La Provvidenza

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"Romanzo della Provvidenza" è una formula tradizionale con cui sono indicati i Promessi sposi; tale formula può però dare luogo a equivoci. L'interpretazione provvidenziale della realtà, infatti, non è mai enunciata dal narratore, ma sistematicamente affidata ai personaggi. Ciò non significa che Manzoni non creda nella Provvidenza, bensì che la sua visione è assai più problematica e complessa di quella dei suoi umili protagonisti. La concezione che ne hanno Renzo e Lucia è elementare e ingenua, e identifica la virtù con la felicità. Per loro l'intervento divino premia invariabilmente i buoni e garantisce il trionfo della giustizia.

Nella visione teologica manzoniana, al contrario, virtù e felicità possono coincidere solo nella prospettiva dell'eterno. Solo in un'altra vita è certo che i buoni saranno premiati e i malvagi puniti. Durante la vita terrena l'imperscrutabile volontà divina può anche causare dolore e ingiustizie ai giusti, senza che ne segua necessariamente una ricompensa. Per Manzoni l'ordine del mondo è provvidenziale non in quanto assicura la felicità ai buoni, bensì in quanto è proprio la sventura a far maturare più alte virtù e consapevolezza. Torna così il concetto centrale della "provvida sventura". Come si è visto, solo alla fine Renzo e Lucia maturano questa più profonda visione della Provvidenza, prendendo atto del fatto che la sventura può colpire anche le persone più innocenti e che la "fiducia in Dio" consente di farne tesoro in vista di "una vita migliore".

Fino alla presa di coscienza finale, dunque, persiste la sfasatura tra la concezione manzoniana della Provvidenza e quella dei suoi umili personaggi. Per questo motivo, come si è detto all'inizio, egli lascia a loro in toto le considerazioni sulla Provvidenza, come a segnare la propria distanza da tali posizioni. Ciò non vuol dire che Manzoni giudichi negativamente la fede elementare dei suoi personaggi: al contrario, la guarda "dall'alto", con distaccata benevolenza, come manifestazione di una preziosa innocenza di "umili". Sente comunque il bisogno di condurli a una maggiore consapevolezza, sottoponendoli a un percorso di maturazione.

La riflessione sulla lingua

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L'operazione compiuta da Manzoni con la redazione definitiva dei Promessi sposi ha un'importanza fondamentale anche nel campo linguistico. Egli fornisce alla letteratura italiana moderna un nuovo modello di lingua letteraria, libero dall'antico "cancro della retorica" (così si espresse Ascoli, grande linguista ottocentesco); su un piano non più letterario ma civile, propone una possibile lingua dell'uso nella società della futura Italia unita.

Per un'opera che, nelle intenzioni dell'autore, doveva essere destinata a un vasto pubblico e affrontare problemi vivi nella coscienza contemporanea, non si poteva usare la tradizionale lingua aulica e classicheggiante, comprensibile solo ai pochi che vantavano un alto livello culturale. Manzoni se ne mostra cosciente già all'inizio della composizione, lamentando le difficoltà opposte dalla lingua italiana alla scrittura di un romanzo, difficoltà causate dalla povertà di costrutti e dalla mancanza di un "codice" comune tra emittente e destinatario, che dia la certezza di essere compresi da chi legge. All'individuazione di tale "codice" Manzoni arriverà per gradi.

In un primo momento, iniziando il Fermo e Lucia, preferisce una lingua di compromesso, costruita su un toscano letterario arricchito di apporti dalla lingua parlata, sia attraverso la conversazione con le persone colte, sia attraverso l'introduzione di termini provenienti dal francese, lingua non dissonante dall'italiano. Ma già dopo il 1824, rivedendo il testo in attesa di pubblicazione, rinuncia a questa lingua composita e si orienta verso il toscano appreso dai libri, scoprendo però con sorpresa che tra i modi toscani e quelli di altri dialetti (in particolare il milanese) esistono molte concordanze.

Dopo la pubblicazione del romanzo, il viaggio a Firenze del 1827 gli rivela quella lingua tanto faticosamente riesumata dai libri come una lingua viva, agile e reale, nei fiorentini colti con cui aveva contatti. Arriva dunque alla soluzione linguistica definitiva: la lingua italiana unitaria deve essere il fiorentino colto (attenzione: non il fiorentino del Trecento e del Cinquecento, ma la lingua attuale). La redazione definitiva de I promessi sposi, che impegna l'autore fino al 1840, si presta come esempio di lingua viva, agile, duttile e non retorica, priva dell'"ingessatura" prescritta dai puristi. Le opere teoriche con cui Manzoni espone le sue tesi linguistiche sono la lettera a Giacinto Carena Sulla lingua italiana (1847), il Saggio di vocabolario italiano secondo l'uso di Firenze (avviato nel 1856 con Gino Capponi) e un trattato che resterà manoscritto, Della lingua italiana (cinque redazioni tra 1830 e 1859).

Le tesi linguistiche manzoniane incontrano il favore della classe politica. Messo dal ministro della Pubblica istruzione a capo della sezione milanese della commissione incaricata di diffondere la buona lingua, nel 1868 presenta la sua relazione, arricchita l'anno successivo di un'Appendice. Propone di diffondere la lingua fiorentina con un vocabolario e con l'impiego di maestri fiorentini nelle scuole elementari. La proposta è seguita dallo stato, sebbene la lingua d'oggi sia il risultato di processi ben più lunghi e complessi e sia ben diversa dal fiorentino.[17]

L'addio alla letteratura

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Alessandro Manzoni nel 1871

Il 1827 segna una nuova svolta nella vita di Manzoni, che dopo la pubblicazione dei Promessi sposi si distacca dalla letteratura. Assume nei confronti del romanzo un atteggiamento di diffidenza, e l'ultima revisione del suo lavoro, quella che darà alle stampe nel 1840, sarà dettata solo da interessi linguistici. Questo nuovo punto di vista sul romanzo è evidente nello scritto Del romanzo storico e, in genere, de' componimenti misti di storia e d'invenzione, in cui il romanzo storico è criticato proprio perché si fonda sulla commistione tra fatti storici e vicende inventate. Manzoni ritiene ormai che questa mescolanza sia illegittima, e che l'invenzione si riduca semplicemente a falsità. Da questo scaturisce l'auspicio di una separazione netta tra le opere storiche e quelle d'invenzione. In generale, Manzoni finisce per svalutare l'intera letteratura, a cui vengono contrapposte la filosofia e la storia.

Si può quindi dire che dopo il 1827 la vena creativa di Manzoni si esaurisce. Da allora fino alla morte lo scrittore si dedicherà solo a questioni linguistiche, filosofiche e storiche. Tenterà la composizione di due nuovi inni, Ognissanti e Natale 1833, che però rimarranno incompiuti. Nel 1840 pubblica, come appendice alla nuova edizione del suo romanzo, la Storia della colonna infame, in cui ricostruisce i processi contro gli untori nel XVII secolo. Si ritrova qui il Manzoni illuminista, che analizza con lucidità e rigore l'operato dei giudici e le loro responsabilità nel condannare persone innocenti.

Negli anni tra il 1862 e il 1864 inizia a scrivere un saggio comparativo intitolato La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859, che però rimarrà incompiuto. La tesi dello scrittore è che la caduta di Luigi XVI non era necessaria per garantire il progresso della Francia, ma anzi portò all'oppressione del paese in nome della libertà e all'impossibilità di istituire un governo stabile. Tra gli ultimi scritti bisogna poi ricordare il dialogo Dell'invenzione (1850), ispirato a Rosmini, e il trattato incompiuto Della lingua italiana, in cui ha raccolto le sue riflessioni sul tema della lingua.[18]

  1. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 1-2.
  2. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 2.
  3. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 2-3.
  4. 4,0 4,1 4,2 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 3.
  5. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 3.
  6. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 4.
  7. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 4-5.
  8. 8,0 8,1 8,2 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 5.
  9. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 5-6.
  10. 10,0 10,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 6.
  11. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 6-7.
  12. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 7.
  13. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 12-13.
  14. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 10-11.
  15. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 8.
  16. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 9.
  17. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 13-14.
  18. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 14.

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