Meccanica analitica/Esperienza di Michelson-Morley e l'ipotesi di Einstein
A cambiare le cose fu un esperimento divenuto celebre con il nome di fallimento di Michelson-Morley, che valse a Michelson il premio Nobel per la fisica nel 1907. L'esperimento aveva come scopo dimostrare l'esistenza dell'etere, e il nome di "fallimento" deriva dal fatto che le conclusioni furono diverse da quelle aspettate.
L'esperimento fa uso dell'interferometro di Michelson, uno strumento che studia le interferenze di due onde luminose generate da un singolo fascio di luce.
Il fascio di luce parte dalla sorgente, per poi incontrare uno specchio semi-argentato, che divide in due il fascio: una parte viene rifratta, percorre e arriva a un altro specchio, mentre l'altro raggio viene riflesso, percorre e incontra a sua volta uno specchio. I due fasci di luce tornano poi allo specchio semi-argentato, da cui poi arrivano ad uno schermo finale in cui si può notare l'interferenza luminosa causata dalla sfasatura dei due fasci.
Non è banale che i due fasci siano sfasati; se le due lunghezze e fossero uguali, i due fasci sarebbero concordi dopo esser tornati allo specchio. Tuttavia, considerata la lunghezza d'onda della luce, le due distanze sono "umane", ovvero qualche metro e, sebbene siano simili tra loro (), non sono così simili da essere precisi alla lunghezza d'onda della luce, provocando la sfasatura che, infine, determina il formarsi sullo schermo di frange d'interferenza.
Tutto l'apparato era montato su un disco di marmo (affinché fosse il più rigido possibile), il quale poggiava su del mercurio liquido. La scelta del mercurio fu dovuta al fatto che, considerate le piccole lunghezze d'onda dei fasci, le vibrazioni terrestri avrebbero potuto incidere non poco sui risultati finali. Inoltre, in questo modo l'apparato poteva essere ruotato. È infatti questo il punto cruciale dell'esperimento: nella prima parte si metteva l'interferometro nel sistema di riferimento Terra (ovvero concorde alla velocità della Terra relativa rispetto all'etere), poi si ruotava e si metteva nel sistema di riferimento etere (ovvero perpendicolare alla velocità della Terra relativa all'etere).
Calcoliamo il tempo impiegato dal fascio di luce per arrivare dalla sorgente allo schermo. Consideriamo che la Terra si muova da sinistra verso destra con velocità ; il tempo impiegato dal primo raggio sarà pari a:
Questo perché la velocità del fascio di luce si somma a quella della Terra secondo le trasformazioni di Galileo. Calcoliamo il tempo impiegato dal secondo raggio; questo, poiché la Terra si muove anche attraverso l'etere, percorre una traiettoria triangolare (il fascio trasla assieme alla Terra).
Dal teorema di Pitagora ricaviamo che il tempo impiegato dal secondo raggio è:
Da qui possiamo ricavare la differenza tra i due tempi, che crea l'interferenza:
Ruotando il sistema di 90°, questo cambia perché, essendo i due raggi ora sono a percorsi inversi rispetto a prima; otteniamo quindi:
Notiamo che , quindi l'interferenza sarà diversa; infatti, posto , questo non è nullo, bensì:
Quindi le due interferenze dovranno essere diverse, considerate diverse le differenze di tempo tra i due fasci. Se l'esperimento è chiamato fallimento di Michelson-Morley c'è un motivo: le frange d'interferenza erano identiche. Ovvero, sia ponendo il sistema nel sistema concorde con l'etere, che opposto, non si avevano effetti sulle interferenze. Non è giusto dire che questo esperimento decretò l'inesistenza dell'etere, anche perché Einstein stesso, qualche anno dopo, ne parlò in modo diverso come campo spazio-temporale, ma fu il colpo decisivo alla teoria dell'etere.
La conseguenza di questo esperimento era che, se esiste, l'etere deve essere in quiete rispetto alla Terra. Il primo tentativo di accordare l'esistenza dell'etere a questo fatto fu quello di considerarlo come un fluido incomprimibile, e la Terra si muoveva in esso causando un moto laminare: la parte di fluido attorno alla Terra si muoveva con essa, ma via via che ci si allontanava l'etere sarebbe stato fermo e la Terra in moto. Ovviamente, questa ipotesi non reggeva. A cambiare le carte in tavola fu Albert Einstein, all'epoca uno sconosciuto impiegato dell'ufficio brevetti di Berna. La sua ipotesi cambiava totalmente il paradigma di pensiero che finora era utilizzato: in breve, possiamo riassumerlo dicendo che il modulo della velocità della luce è costante in ogni sistema di riferimento e le leggi fisiche hanno la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento inerziali. Da qui, lo stesso Einstein formulò la teoria della relatività, ristretta prima, generale poi.