Ispirazione mistica/Capitolo 1

Wikibooks, manuali e libri di testo liberi.
Indice del libro

In principio...[modifica]

La maestria spirituale nell'ebraismo può essere fatta risalire all'inizio dei tempi — con le storie di Adamo, Enoch, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Mosè e altre figure leggendarie le cui vite sono catturate nei primi cinque libri della Bibbia ebraica . Nei successivi libri della Bibbia, nelle raccolte denominate Profeti e Scritti, la narrazione continua con gli insegnamenti di profeti come Elia, Samuele, Amos, Isaia, Geremia ed Ezechiele. I sacerdoti ereditari svolgevano anche un ruolo nel fornire guida spirituale attraverso il rituale del Tempio in cui gli Israeliti tentavano di entrare in comunione con il divino.[1]

Delle prime figure bibliche – probabilmente fino ai tempi di Mosè – dobbiamo affidarci alle storie e alle leggende raccolte nei midrashim (commentari rabbinici alla Bibbia), ai testi narrativi del Talmud, alle interpretazioni mistiche dello Zohar (opera principale della Cabala medievale) e altro materiale. Non abbiamo narrazioni dirette nella Bibbia stessa che descrivono le esperienze mistiche di questi patriarchi – solo accenni qua e là, che furono ampliati dalla letteratura successiva. Ciò che è significativo, tuttavia, è ciò su cui si è concentrata questa letteratura successiva – la possibilità di un contatto personale con il divino – l'esperienza diretta del potere divino, l'ascesa a reami spirituali superiori. Ciò dimostra che c’è sempre stato un sottotesto di esperienza spirituale personale e di trasmissione, incorporato accanto alla storia letterale presentata dalla Bibbia. I mistici successivi furono in grado di estrarre questi temi spirituali dal racconto biblico degli eventi degli uomini e delle donne di un tempo precedente.

Adamo[modifica]

Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Adamo.

Adamo, il primo uomo, il primo essere umano: per i mistici ebrei divenne l'archetipo dell'umanità, che chiamarono Adam Kadmon (l'Adamo primordiale). Lo intendevano simbolicamente come il macrocosmo all'interno del quale tutta la vita era generata, come l'Uomo Primordiale delle Upaniṣad[2] e il P’an ku (uomo primitivo) della Cina.[3]

Le leggende che circondano Adamo sono avvincenti. Oltre alle famose storie di Adamo ed Eva nella Genesi, molte leggende furono tramandate di generazione in generazione in fonti esterne alla Bibbia; alcune furono scritte come midrashim o conservate nello Zohar e in altre raccolte. Alcune non incluse nelle fonti ebraiche compaiono negli ḥadīth musulmani (narrazioni originate dalle parole e dalle azioni di Maometto). In effetti, il fondamento stesso della religione ebraica si basa su una letteratura che trasmette le esperienze di anime evolute che hanno avuto rivelazione diretta da Dio, e la trasmissione di quella conoscenza spirituale, spesso segretamente, da una generazione all'altra attraverso una linea di maestri, a cominciare da Adamo stesso, il primo uomo. Questo non è l'Adamo del peccato originale che conosciamo dalla storia biblica del Giardino dell’Eden, ma l'Adamo della luce – quello scelto da Dio per ricevere la Sua luce e trasmetterla alle generazioni successive. Queste leggende presuppongono che ad Adamo fosse stata affidata la missione divina di trasmettere la luce spirituale e la saggezza di Dio al mondo.

Una leggenda del V secolo racconta che quando Adamo ed Eva furono banditi dal Giardino dell'Eden, persero la luce celeste primordiale — la luce che fu la prima creazione di Dio. Successivamente un angelo restituì loro un piccolo frammento sotto forma di pietra preziosa, uno tsohar.

« Senza questa luce il mondo sembrava loro oscuro, perché al confronto il sole splendeva come una candela. Ma Dio conservò una piccola parte di quella preziosa luce all'interno di una pietra luminosa, e l'angelo Raziel consegnò questa pietra ad Adamo dopo che furono espulsi dal Giardino dell'Eden come pegno del mondo che si erano lasciati alle spalle. Questo gioiello, noto come tsohar, a volte brillava e a volte nascondeva la sua luce. »
(“The Tzohar” [Tsohar], in Schwartz, Gabriel’s Palace, pp. 59–62, basato sul Talmud babilonese, Trattato Hagigah 12a; Midrash Genesis Rabbah 31:11, e altre fonti)

Alla sua morte, racconta la leggenda, Adamo affidò la pietra a suo figlio Seth che la utilizzò per acquisire una visione spirituale. Seth la scrutò internamente e diventò un grande profeta. Fu poi tramandata a Enoch, nella settima generazione dopo Adamo, che anche lui si risvegliò spiritualmente in virtù di essa e alla fine ascese ai cieli dove fu trasformato in un angelo. Di Enoch ci sono solo poche righe nella Bibbia (Genesi 5:18-24), eppure attorno a lui crebbe tutta una tradizione esoterica; è ritratto come un maestro spirituale che ascese al cielo con trasporto mistico mentre era ancora fisicamente vivo e vide Dio sul trono in tutta la Sua gloria, per poi condividere gli insegnamenti divini con i suoi discendenti terreni.

La storia dello tsohar continua attraverso le prime generazioni dell'uomo e rivela come ogni persona – Matusalemme (figlio di Enoch), Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe e Mosè – usò la pietra per avvicinarsi a Dio e acquisire una visione spirituale.

Il gioiello simboleggia la saggezza divina primordiale, la conoscenza spirituale, la luce interiore, che è patrimonio dell'umanità. È il legame tra uomo e Dio. La leggenda dice che Dio aveva originariamente conferito questa luce divina ad Adamo. Adamo ne perse il contatto quando disobbedì a Dio e ascoltò la voce del suo ego che gli diceva di mangiare il frutto proibito. Anche se Adamo fu bandito dal Giardino dell'Eden, Dio preservò questa luce per Adamo e i suoi successori, sotto forma di una pietra preziosa che un angelo in seguito restituì ad Adamo. Questo è un modo poetico per dire che tale saggezza rimane ancora nel reame della realizzazione umana perché Dio l'ha conservata per noi. Il fatto che venga tramandata di generazione in generazione, attraverso una stirpe di profeti e patriarchi, ci dice che è lì per tutti in ogni momento.

La Bibbia inizia il racconto della creazione dell'uomo con l'affermazione: “Questo è il libro della genealogia di Adamo” (Genesi 5:1). Lo Zohar ha interpretato simbolicamente questo passaggio nel senso che tale libro è in realtà la saggezza spirituale tramandata da Adamo attraverso le generazioni. Ciò significa che il lignaggio umano che inizia con Adamo è un lignaggio spirituale. Enoch ereditò lo stesso “libro della genealogia di Adamo” ed esso gli diede la chiave del mistero della santa sapienza:

Rabbi Abba disse: “Ad Adamo fu portato un vero libro, dal quale egli scoprì la saggezza superna. Questo libro è giunto ai figli di Elohim [Dio], che lo contemplano e lo conoscono.[4] Questo libro è stato portato giù dal maestro dei misteri [l'angelo Raziel], preceduto da tre inviati.
Quando Adamo lasciò il Giardino dell'Eden afferrò quel libro, ma mentre se ne andava volò via da lui verso la porta. Pregò e pianse davanti al suo Signore, e gli fu restituito come prima, affinché la sapienza non fosse dimenticata dall'umanità e si sforzassero di conoscere il loro Signore. Allo stesso modo abbiamo appreso: Enoch aveva un libro – un libro dal sito del libro delle generazioni di Adamo, mistero di saggezza – poiché fu preso dalla Terra, come sta scritto: egli non c'era più, perché Dio lo prese (Genesi 5:24). Egli è il Giovane [il servitore celeste]...[5] Tutti i tesori nascosti in alto gli furono affidati, e egli li trasmette, portando a termine la missione. Gli furono consegnate mille chiavi; trasmette cento benedizioni ogni giorno, inghirlandando ghirlande per il suo Signore. Il Santo Benedetto lo prese dal mondo per servirLo, siccome sta scritto: perché Dio lo prese.[6]

Dopo Adamo, la Bibbia racconta la storia di Noè e del grande diluvio, in cui Dio comandò a Noè di costruire un'arca per salvare un maschio e una femmina di ciascuna specie. Secondo alcuni studiosi del mito antico, l'arca simboleggia la continuità della vita, e quindi il nucleo degli insegnamenti spirituali, attraverso i cicli cosmici di creazione, distruzione e ri-creazione.[7] Noè funziona come un mitico maestro spirituale, l'archetipo del salvatore dell'umanità, che porta l'insegnamento mistico (simboleggiato come il potenziale per la continuità della vita) da un'epoca all'altra. Nella Bibbia, Noè è chiamato ish-tamim, un uomo perfetto o innocente — tam significa semplice, intero o perfetto.

Noè è anche chiamato tsadik, un termine derivato da tsedek (virtù, rettitudine), una qualità di Dio che gli esseri umani possono emulare. Tsedek può anche significare salvezza, liberazione o vittoria. Nel corso dei secoli, lo tsadik sarebbe diventato uno dei termini più importanti per indicare il maestro spirituale nell'ebraismo.

Sebbene le leggende registrate su Adamo, Noè, Enoch e altre personalità risalgano a un periodo molto successivo, attestano la persistenza di un genere di letteratura parallelo alla Bibbia che presentava queste figure imponenti come adepti spirituali che avevano potenti esperienze mistiche tramite meditazione e preghiera: esperienze così profonde da creare un modello da emulare per i successivi mistici ebrei. Fornivano narrazioni attraverso le quali i mistici successivi impartivano i loro insegnamenti.

Abramo[modifica]

Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Abramo.

Abramo è considerato il primo padre spirituale degli ebrei, perché secondo la storia rifiutò il culto degli idoli e scelse di adorare YHWH, il Dio unico. La Bibbia racconta i primi anni di vita di Abramo e i suoi viaggi, su comando di Dio, da Ur in Mesopotamia, il “paese dei suoi padri”, alla terra di Canaan. Racconta della sua devozione a YHWH e dell'alleanza di YHWH con lui. L'alleanza è una promessa di fedeltà reciproca. È un impegno tra amanti, uno divino e uno umano. Abramo accetta che adorerà e si dedicherà all'unico Signore. In cambio, Dio promette il Suo amore e la Sua cura incessanti per Abramo e la sua discendenza: che da lui discenderà un popolo grande e potente, al quale lascerà in eredità una terra “dove scorre latte e miele”, a patto che continui a essere fedele a Lui. Il patto doveva essere suggellato con la circoncisione dei figli maschi provenienti da Abramo e dalla sua stirpe. Questa è la storia a livello letterale.

Ma cosa significa dire che Abramo cominciò ad adorare un solo Dio? Da una prospettiva mistica, questo culto dell'unico Dio, o monoteismo come viene comunemente chiamato, è il culto dell'unità che è Dio, il potere creativo divino o forza vitale che permea l'intera creazione; nella Bibbia viene spesso definito il nome o la parola essenziale e ineffabile di Dio, lo spirito santo. Molte delle antiche leggende su Abramo riflettono la tradizione esoterica secondo cui egli sperimentò Dio direttamente come spirito santo (ruah ha-kodesh) e gli fu affidata la missione divina di trasmettere quella conoscenza agli altri.

Rabbi Judah Leib Alter di Ger (1847-1904), uno dei più ispirati rabbini successivi del Hasidismo, insegnò il livello più profondo del significato della preghiera: "Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno", che è considerata l'incarnazione del monoteismo insegnato da Abramo. Spiega che l'intera creazione “è Dio stesso”. Dio è la potenza immanente nella creazione.

« La proclamazione di unità che dichiariamo ogni giorno dicendo “Ascolta O Israele”, e così via, deve essere compresa così com’è veramente... Ciò che mi è del tutto chiaro... basandomi sugli scritti sacri dei grandi cabalisti, sono obbligato a rivelarti... il significato di “YHWH è Uno” non è che Egli sia l'unico Dio, negando gli altri dei (sebbene anche questo sia vero!), ma il significato è più profondo di questo: non esiste altro essere oltre a Lui. [Questo è vero] anche se alla maggior parte delle persone sembra il contrario... tutto ciò che esiste nel mondo, spirituale e fisico, è Dio stesso. »
(Judah Leib Alter di Ger, Otsar ma’amraim u-mikhtavim (A Treasury of Sayings and Writings) (Jerusalem: Makhon Gahaley Esh, 1986), p. 75f; citato in Green, Ehyeh: A Kabbalah for Tomorrow, p. 22)

In un gioco di parole, alcuni rabbini dell'antichità interpretarono il comando dato da Dio ad Abramo di lasciare la casa dei suoi padri e "salire" o "andar avanti" verso la terra che Dio gli avrebbe mostrato, come un comando per Abramo di lasciare il livello o stato di coscienza inferiore in cui normalmente dimorava ed elevare la sua coscienza a un livello spirituale attraverso la meditazione. L'ebraico dice letteralmente “lekh lekha” – “vai in te stesso” (Genesi 12:1), che è stato interpretato misticamente come “vai dentro te stesso”.[8] I rabbini credevano che Abramo godesse di comunione con Dio tramite l'esperienza mistica.

Successivamente i mistici ebrei sottolinearono che l'alleanza, segnata dal rito della circoncisione, era l'ingresso di Abramo in una relazione con il “nome” di Dio. Lo Zohar dice che l'alleanza segna il momento in cui Abramo si unì alla sapienza superiore, il “nome” di Dio. La circoncisione, che suggella l'alleanza, simboleggia l'eliminazione dell'attaccamento ai livelli, ai gradini o ai gradi inferiori della spiritualità. Infatti il termine brit milah, comunemente tradotto come patto della circoncisione, significa anche “patto del nome”. Lo Zohar ci racconta che prima di entrare nell'alleanza, Abramo aveva visto Dio in visione solo in occasioni particolari, ma dopo quel momento fu sempre accompagnato dalla presenza di Dio.

« In precedenza Dio aveva dato ad Abramo la sapienza affinché si attaccasse a Lui e conoscesse il vero significato della fede, ma solo questo grado inferiore sentiva effettivamente; tuttavia quando fu circonciso, tutti i gradi superiori si unirono a questo grado inferiore per parlare in lui, e così Abramo raggiunse il vertice della perfezione. Ecco, l'uomo prima di essere circonciso non è attaccato al nome di Dio, ma quando è circonciso entra nel nome e vi aderisce. Abramo,[9] è vero, era legato al nome prima di essere circonciso, però non nel modo giusto, ma solo per l'estremo amore di Dio per lui; successivamente gli comandò di circoncidersi, e poi gli fu concessa l'alleanza che collega tutti i gradi superni, un patto di unione che collega insieme il tutto così che ogni parte è intrecciata. Quindi, finché Abramo non fu circonciso, la parola di Dio con lui era solo in una visione, come è stato detto. »
(Zohar 1:89a, in The Zohar, cit., vol. 1, pp. 295–296)

Il culto del Dio unico che Abramo insegnò ai suoi discendenti e discepoli era, quindi, molto probabilmente un culto interiore del nome di Dio, al quale si era unito al tempo dell'alleanza. Questo è il vero monoteismo: l'adorazione dell'unico principio divino che è eterno e sostiene tutto. Lo studioso contemporaneo del misticismo ebraico, Arthur Green, spiega l'essenza del monoteismo in termini mistici: “In the beginning there was only One. There still is only One. That One has no name, no face, nothing at all by which it can be described. Without end or limit, containing all that will ever come to be in an absolute undifferentiated oneness”.[10]

Ci sono molte tradizioni che riguardano Abramo come maestro spirituale, un insegnante che portò la saggezza divina dall'Oriente – il luogo della sua origine – a Canaan, dove la condivise con chiunque invitasse nella sua casa. Lo Zohar presenta una delle più interessanti. Si racconta che Abramo purificò gli abitanti del mondo con l'acqua – un riferimento simbolico all'acqua interiore, la sapienza divina che scorre dai reami spirituali a quelli umani. Poi piantò un albero ovunque risiedesse, e attraverso questo dava ombra a tutti coloro che “abbracciavano il Santo Benedetto”. L'albero è anche un simbolo dell'insegnamento spirituale. Dio è esplicitamente paragonato all'albero vivificante, albero della vita.

Venite e vedete: Dovunque risiedesse Abramo, egli piantò un albero; ma in nessun luogo germogliò adeguatamente finché non risiedette nel paese di Canaan. Mediante quell'albero scoprì chi abbracciava il Santo Benedetto e chi abbracciava l'idolatria. Chiunque avesse abbracciato il Santo Benedetto – l'albero avrebbe allargato i suoi rami, coprendogli la testa, facendogli bella ombra. Chiunque abbracciasse l'aspetto dell'idolatria – quell'albero si sarebbe ritirato, i suoi rami elevandosi in alto. Allora Abramo sapeva e lo avvertiva – non lasciandolo andare finché questi non avesse abbracciato la fede. Chiunque fosse puro l'albero avrebbe accolto favorevolmente; chiunque fosse impuro non accoglieva favorevolmente, cosicché Abramo lo riconosceva e purificcava con l'acqua. Sotto quell’albero c'era una sorgente d'acqua: se qualcuno aveva bisogno di un'immersione immediata, l'acqua zampillava verso di lui e i rami dell'albero si ritiravano. Allora Abramo capiva che era impuro e richiedeva l'immersione immediata...
Venite e vedete: Quando Adamo peccò, peccò con l'Albero della Conoscenza del Bene e del Male, infliggendo la morte a tutti gli abitanti del mondo. Quando Abramo apparve, egli riparò il mondo con un altro albero, l'Albero della Vita, proclamando la fede a tutti gli abitanti del mondo.[11]

Il peccato di Adamo nel mangiare dall’albero della conoscenza del bene e del male è simbolicamente un riferimento all'ingresso di Adamo nel mondo della dualità, mentre l'albero della vita che Abramo piantò simboleggia l'unità divina, che è la fonte ultima di tutta la vita.

Mosè: il profeta archetipico[modifica]

Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Mosè.

Si pensa che Mosè sia vissuto nel XIII secolo AEV, mentre l'Esodo ebbe luogo intorno al 1230. La personalità di Mosè domina tutte le discussioni sulla spiritualità dal suo tempo in poi. È considerato il profeta israelita per eccellenza. Tuttavia, non era una grande personalità e non veniva nemmeno chiamato profeta nella Bibbia – semplicemente un uomo di Dio. La rappresentazione biblica è di un uomo umile che lottò per adempiere alla sua chiamata divina e servire un popolo ribelle. È stato il suo esempio a diventare lo standard secondo il quale venivano considerati tutti i mistici delle generazioni successive, e spesso si riferivano a Mosè come al loro antenato spirituale. Il maestro chassidico del diciottesimo secolo, il Ba’al Shem Tov, insegnava:

« Proprio come Mosè fu il capo di tutta la sua generazione... così è per ogni generazione. I leader hanno scintille [nella fiamma delle loro anime] provenienti dal nostro insegnante Mosè. »
(Ya’akov Yosef, Toldot Ya’akov Yosef (Eventi di Ya’akov Yosef) (Lemberg, 1863), 127b, citato in Dresner, The Zaddik, p. 127)

Il sufi ebreo medievale, Obadyah Maimonide, nipote del filosofo del XII secolo Mosè Maimonide, nel suo libro Il trattato della piscina, considerava Noè, Enoch, Abramo e altri primi patriarchi come mistici praticanti, destinatari e trasmettitori della saggezza spirituale. Li descrive come “intercessori” a favore del popolo, attraverso i quali la Volontà divina raggiungeva l'umanità. Ma, dice, al tempo di Mosè questo lignaggio profetico aveva cessato di essere attivo. Fu solo Mosè a farlo rivivere:

« Gli individui che raggiunsero questo stato furono molto scarsi, come è detto: “Ho visto i figli del Cielo, ma sono pochi”,[12] come una goccia nel mare... Poiché tu troverai in ogni epoca un solo individuo, come Noè nella generazione del Diluvio, il suo predecessore Matusalemme, Enoch, Lemekh, Shem, Eber, Abramo, Isacco e Giacobbe. Dopo i patriarchi il legame [wusla] fu reciso e non ci fu alcun intercessore [safi] fino alla nascita del più glorioso degli esseri e della più nobile delle creature, il nostro maestro Mosè, la pace sia su di lui, che lo restaurò, attraverso la Divina Volontà. »
(Obadyah Maimonide, Trattato della piscina, Paul Fenton, p. 112)

Questa eredità spirituale che Mosè ricevette dai primi patriarchi e utilizzò a favore degli Israeliti è spiegata simbolicamente in un'altra leggenda raccontata in un libro di preghiere medievale. La conoscenza spirituale era simbolicamente “incisa” su una verga o bastone proveniente da Adamo, che la trasmise al figlio Seth; e fu tramandata attraverso le generazioni finché Mosè la ricevette. Come verga o ramo tagliato dall'“albero della vita”, la conoscenza simboleggia il potere spirituale, il “nome” divino di Dio che Mosè invocò come profeta e maestro spirituale degli Israeliti. È la verga con cui divise il Mar Rosso, nel racconto degli Israeliti in fuga dalla schiavitù in Egitto:

« Non c'era nulla di simile [alla verga] nel mondo, perché su di essa era inciso il nome ineffabile di Dio. Questa verga Adamo la trasmise a Seth, e fu tramandata di generazione in generazione finché Giacobbe, nostro padre, scese in Egitto e la diede a Giuseppe. Ora, quando Giuseppe morì, i servitori del Faraone frugarono in ogni cosa della sua casa e depositarono la verga nel tesoro del Faraone.
Nella casa del Faraone c'era Ietro, suocero di Mosè; Ietro era uno degli astrologi del Faraone e apprese l'importanza di questa verga tramite l'astrologia. La prese, la piantò nel suo giardino ed essa mise radici nella terra. Tramite l'astrologia Ietro scoprì che chiunque fosse riuscito a sradicare questa verga sarebbe stato il salvatore di Israele. Perciò metteva alla prova la gente, e quando Mosè arrivò nella sua casa e poi si alzò e la sradicò, Ietro lo gettò nella prigione che aveva nel suo cortile. Zippora si innamorò di Mosè e chiese a suo padre che le fosse dato in marito. Allora Ietro la fece sposare con Mosè. »
(Mahzor Vitry, XI e XII secolo (opera dei discepoli di Rashi, 1040–1105), S. Hurwitz, cur., Nurnberg, 1923, citato in Living Talmud, Goldin, p. 195)

Questa leggenda indica Mosè come un vero adepto spirituale, erede della saggezza divina tramandata fin dalle origini.

Elezione[modifica]

Il libro dell'Esodo racconta che Mosè, mentre pascolava le pecore di Ietro, sacerdote e astrologo madianita, ebbe la sua prima esperienza profetica: un incontro diretto con la realtà divina, l'“angelo del Signore”, manifestata in un roveto ardente il cui fuoco non si estingueva.

L'angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto.
Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva nel fuoco, ma quel roveto non si consumava.
Mosè pensò: "Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?".
Il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: "Mosè, Mosè!".
Rispose: "Eccomi!".
(Esodo 3:2-5)

Il brano suggerisce che all'improvviso, spontaneamente, senza preavviso, Mosè fu scelto da Dio per essere il salvatore degli Israeliti, liberandoli dalla schiavitù in Egitto. L'idea di Dio che si fa conoscere al profeta attraverso un roveto ardente ha galvanizzato l'immaginazione di generazioni di lettori della Bibbia, che l'hanno compresa alla lettera. Ma sembra suggerire anche un'interpretazione simbolica, come ascesa ad un piano superiore di coscienza in cui Mosè fece una forte esperienza della presenza divina, manifestata come ineffabile luce e suono spirituali.

La risposta di Mosè a questa chiamata fu indicativa della sua grande umiltà. Disse:

"Mio Signore, io non sono un buon parlatore;
non lo sono mai stato prima e neppure da quando
tu hai cominciato a parlare al tuo servo,
ma sono impacciato di bocca e di lingua".
Il Signore gli disse:
"Chi ha dato una bocca all'uomo o chi lo rende
muto o sordo, veggente o cieco?
Non sono forse io, il Signore?
Ora va'! Io sarò con la tua bocca e
ti insegnerò quello che dovrai dire".
(Esodo 4:10-12)

Mosè non aveva cercato questo ruolo per sé, anzi, si considerò indegno, incapace di parlare. Quando pregò Dio di sollevarlo da questa terribile responsabilità, Dio lo rimproverò per la sua mancanza di fede, dicendo che Colui che ha creato la bocca e le parole che pronuncia, gli avrebbe insegnato cosa dire. Di quale maggiore rassicurazione avrebbe potuto aver bisogno? Tuttavia continuò a protestare, cinque volte in tutto, finché alla fine Dio gli permise di portare con sé suo fratello Aronne come portavoce. L'umiltà che caratterizza questo episodio si venne ad identificare con il carattere di Mosè.

Rivelazione[modifica]

Il nome ebraico dell'Egitto, Mitsrayim, significa letteralmente costretto, e i saggi interpretarono simbolicamente la schiavitù degli Israeliti in Egitto come indicativa di uno stato di costrizione spirituale, uno stato spirituale inferiore.[13] Alla fine, sotto la guida di Mosè, le anime degli Israeliti entrarono in contatto con la vera divinità, la parola o discorso di Dio, attraverso la rivelazione al Sinai.

Gli Israeliti aspettarono ai piedi della montagna mentre Mosè comunicava con Dio sulla cima della montagna. Lì Dio rivelò i Dieci Comandamenti e, secondo la tradizione, l'intera Torah. Il conferimento dei Dieci Comandamenti simboleggia un rinnovamento dell'alleanza di Dio con Abramo seicento anni prima della rivelazione a Mosè.

Mentre Mosè era in intima comunione con la realtà divina per loro conto, la Bibbia racconta che gli israeliti indulgevano in comportamenti immorali ai piedi della montagna, dove crearono e adorarono un vitello d'oro. Sebbene fossero immeritevoli, la rivelazione fu comunque loro concessa. Era la loro eredità spirituale nonostante la loro ingratitudine. Questo sarà il modello del loro rapporto con Dio durante i quaranta anni di peregrinazione nel deserto prima di raggiungere la “terra promessa”. Il viaggio attraverso il deserto doveva dare loro l'opportunità di lasciare lo stato spirituale ristretto da cui provenivano e fornire una transizione verso la loro crescente consapevolezza spirituale. Ma essi persero costantemente la fede e si comportarono in modo ribelle, volendo tornare in Egitto, e ancora e ancora Dio, attraverso Mosè, dimostrò il Suo amore per loro. Questa storia è anche una metafora del rapporto degli israeliti con Dio e i suoi profeti nel corso della loro storia – e dell'infedeltà e dell'ingratitudine da parte dell'anima verso la sua eredità spirituale.

L'esperienza che Mosè ha della straordinaria presenza divina sulla cima della montagna è descritta drammaticamente nell'Esodo:

« Mosè salì dunque sul monte e la nube coprì il monte. La Gloria [kavod][14] del Signore venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube. La Gloria del Signore appariva agli occhi degli Israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna. Mosè entrò dunque in mezzo alla nube e salì sul monte. Mosè rimase sul monte quaranta giorni e quaranta notti. »
(Esodo 24:15-18)

Il popolo come percepì Mosè dopo tale sua esperienza?

« Quando Mosè scese dal monte Sinai – le due tavole della Testimonianza si trovavano nelle mani di Mosè mentre egli scendeva dal monte – non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con il Signore. Ma Aronne e tutti gli Israeliti, vedendo che la pelle del suo viso era raggiante, ebbero timore di avvicinarsi a lui. Mosè allora li chiamò e Aronne, con tutti i capi della comunità, andò da lui. Mosè parlò a loro. Si avvicinarono dopo di loro tutti gli israeliti ed egli ingiunse loro ciò che il Signore gli aveva ordinato sul monte Sinai. Quando Mosè ebbe finito di parlare a loro, si pose un velo sul viso. Quando entrava davanti al Signore per parlare con Lui, Mosè si toglieva il velo, fin quando fosse uscito. Una volta uscito, riferiva agli Israeliti ciò che gli era stato ordinato. Gli israeliti, guardando in faccia Mosè, vedevano che la pelle del suo viso era raggiante. Poi egli si rimetteva il velo sul viso, fin quando fosse di nuovo entrato a parlare con il Signore. »
(Esodo 34:29-35)

Quando Mosè scese dalla montagna con i Dieci Comandamenti, il suo volto brillava di luce: aveva percepito dentro di sé, in uno stato di coscienza superiore, la luce spirituale della presenza di Dio di cui risplendeva. Gli Israeliti erano spaventati dallo splendore emanato da Mosè – la prova immediata della potenza del divino. Pertanto si mise un velo sul viso in modo che la sua luce non li sopraffacesse – questo potrebbe riferirsi non tanto a un velo fisico ma al fatto che mascherava spiritualmente il suo splendore spirituale in modo da non intimidirli. Mosè si sacrificò ponendosi come mediatore tra il Signore e il popolo, perché la presenza piena dell'autorivelazione di Dio era troppo intensa per loro. Il libro del Deuteronomio racconta la reazione del popolo alla rivelazione divina attraverso il fuoco e alla voce tremenda che si proietta dal fuoco. Avevano paura di morire se si fossero confrontati direttamente con Dio, mentre Mosè poteva parlare con Lui e vivere:

« Il Signore vi ha parlato faccia a faccia sul monte dal fuoco, mentre io stavo tra il Signore e voi, per riferirvi la parola del Signore, perché voi avevate paura di quel fuoco e non eravate saliti sul monte... [Mosè ripete poi i Dieci Comandamenti che erano incisi sulle Tavole, e poi dice loro:] Queste parole pronunciò il Signore, parlando a tutta la vostra assemblea, sul monte, dal fuoco, dalla nube e dall'oscurità, con voce poderosa, e non aggiunse altro. Le scrisse su due tavole di pietra e me le diede. All'udire la voce in mezzo alle tenebre, mentre il monte era tutto in fiamme, i vostri capitribù e i vostri anziani si avvicinarono tutti a me e dissero: Ecco il Signore nostro Dio ci ha mostrato la sua gloria e la sua grandezza e noi abbiamo udito la sua voce dal fuoco; oggi abbiamo visto che Dio può parlare con l'uomo e l'uomo restare vivo. Ma ora, perché dovremmo morire? Questo grande fuoco infatti ci consumerà; se continuiamo a udire ancora la voce del Signore nostro Dio moriremo. »
(Deuteronomio 5:4-6,19-22)

La Bibbia sottolinea anche l'alto grado di realizzazione spirituale di Mosè definendolo una relazione in cui Dio gli parlava “bocca a bocca” e gli permetteva di vedere la Sua “forma”:

« Il mio servo Mosè: egli è l'uomo di fiducia in tutta la mia casa. Bocca a bocca parlo con lui, in visione e non con enigmi ed egli guarda l'immagine del Signore. »
(Numeri 12:7-8)

Molti mistici ebrei hanno insegnato che l'esperienza profetica avuta da Mosè sulla rivelazione della Torah in cima alla montagna era una metafora della sua ascesa spirituale, in cui egli sperimentò in prima persona la potenza divina – la Torah essenziale o non scritta, ineffabile o parola divina. Secondo Abraham Abulafia, un cabalista del XIII secolo, “l'ascesa alla montagna è un'allusione all'ascesa spirituale – cioè alla profezia”. E scrive:

« Perché Mosè salì sul monte e salì anche al livello divino. Quella salita si combina con una materia rivelata e con una materia nascosta; la [materia] rivelata è l'ascesa della montagna, e l'[aspetto] nascosto è il livello della profezia. »
(Abulafia, Haye ha-nefesh (Vita dell'Anima), MS. Munchen 408, folio 7b–8a)

Arthur Green ci chiede di pensare al significato fondamentale della rivelazione. Comprende l'incontro di Mosè con il reame divino a livello mistico:

« What then do we mean by revelation? Whether we understand the tale of Sinai as a historic event or as a metaphor for the collective religious experience of Israel, we have to ask this question. Here, too, the notion of primordial Torah is the key. Revelation does not necessarily refer to the giving of a truth that we did not possess previously. On the contrary, the primary meaning of revelation means that our eyes are now opened, we are able to see that which had been true all along but was hidden from us. . . . The truth that God underlies reality, and always has, now becomes completely apparent...
What is it that is revealed at Sinai? Revelation is the self-disclosure of God. Hitgallut, the Hebrew term for “revelation,” is in the reflexive mode, meaning that the gift of Sinai is the gift of God’s own self. God has nothing but God to reveal to us... The “good news” of Sinai is all there in God’s “I am.” »
(Green, Ehyeh: A Kabbalah for Tomorrow, pp. 34–35)

Mosè esortò esplicitamente gli Israeliti a guardarsi dentro per trovare Dio, “nella propria bocca e nel proprio cuore”:

« Questo comandamento che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica. »
(Deuteronomio 30:11-14)

Green sottolinea che nella storia spirituale ebraica esiste una tensione di fondo tra la concezione verticale di Dio – che vive in cielo, lontano e separato da noi, che può essere raggiunto, metaforicamente, scalando una montagna fisica – e la concezione interiore di Dio, che può essere raggiunto salendo dentro noi stessi verso reami interiori più elevati o stadi di coscienza, tramite la pratica mistica. Green chiede:

« What does the Torah mean here? It does not sound as though Moses is saying: “God’s teaching indeed used to be in heaven, but I have already brought it down for you!” This seems to be a rather different Moses than the one who climbs the mountain. Here he seems to be telling us that the journey to Torah is, and always has been, an inward rather than a vertical journey. The only place you have to travel to find God’s word is to your own heart. The journey to the heart is the mystical quest. »
(Green, Ehyeh: A Kabbalah for Tomorrow, p. 21)

Le esperienze profetiche che Mosè ebbe sul Sinai, e prima ancora presso il roveto ardente, indicano che ebbe una trasformazione mistica, un'esperienza dell'unica realtà divina interiore. Entrò in contatto con il suo “cuore mistico”. Al livello più sublime, l'alleanza tra Dio e gli israeliti era l'impegno di Dio a dotarli di uno stato di coscienza spirituale simboleggiato da una terra di latte e miele – la vera terra promessa – a condizione che gli israeliti rimanessero fedeli alla loro parte del patto – adorare YHWH ed essere obbedienti alla Sua volontà.

Mosè il Pastore[modifica]

Ma gli israeliti non rimasero fedeli al culto del Dio unico; dubitarono sempre di Lui e tornarono al culto degli idoli e ai rituali della fertilità. Tuttavia, Mosè li servì fedelmente e non rinunciò mai ai suoi tentativi di riportarli a Dio. La sua esperienza come pastore gli fece comprendere la sfida che doveva affrontare nel prendersi cura dei suoi seguaci. Nell'antico Vicino Oriente, il pastore era spesso usato come metafora di un maestro o guida spirituale. Se una delle sue pecore si smarriva, il pastore faceva di tutto per trovarla e riportarla tra le braccia del suo gregge, evitando i predatori.

Infatti, secondo la Bibbia, molti dei profeti biblici, come Mosè, Davide, Amos ed Ezechiele, erano stati pastori nella loro giovinezza. Alcuni dei mistici ebrei successivi ipotizzarono che “pascere le pecore” fosse una metafora biblica della meditazione.[15] Se questi profeti fossero realmente pastori o se questa fosse una metafora della loro ricerca di vita spirituale, della loro pratica di meditazione, non si può sapere. Il cabalista italiano, Rabbi Simon ben Tsemakh Duran (1361–1444), suggerisce che Mosè, prima di essere scelto da YHWH per questa missione, fosse già in sintonia spirituale e che non fu un caso che egli divenisse un pastore.

« Con la sua mente acuta, [Mosè] fu in grado di comprendere ciò che era necessario per raggiungere l'illuminazione, rendendosi conto che il percorso passava attraverso la meditazione [hitbodedut].
Scelse quindi di separarsi da tutti coloro che lo disturbavano e di rifiutare ogni desiderio fisico, scegliendo di essere pastore nel deserto, dove non si trova uomo. Mentre era lì raggiunse senza dubbio un grande attaccamento al concettuale, spogliandosi di tutti i desideri corporali, finché fu in grado di rimanere per quaranta giorni e notti senza mangiare né bere. »
(Simon ben Tsemakh Duran, Magen avot 2:2, Livorno, 1785, p. 16a)

Aryeh Kaplan, i cui studi sulla meditazione ebraica rivelano una lunga tradizione di spiritualità interiore, afferma che hitbodedut era il termine principale usato dagli antichi mistici ebrei per descrivere la meditazione. Letteralmente, hitbodedut significa solitudine o autoisolamento, ed è generalmente inteso come "a kind of internal isolation, where the individual mentally isolates his essence from his thoughts".[16]

Giosuè[modifica]

Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Giosuè (condottiero biblico).

Quando Mosè stava per morire, la Bibbia racconta che Dio nominò Giosuè come suo successore, perché le masse israelite avevano bisogno di una guida spirituale vivente. Usando ancora la metafora del pastore e delle sue pecore, Mosè implorò YHWH di nominare un suo successore, in modo che non fossero "come un gregge senza pastore" (Numeri 27:17). Il Signore acconsentì e disse a Mosè di nominare Giosuè, “uomo in cui è lo spirito” (Numeri 27:18), a significare che egli vive grazie alla forza dello spirito santo, proprio come aveva fatto Mosè. Dio promette di avere con Giosuè lo stesso rapporto che aveva avuto con Mosè.

Perle Epstein, studiosa contemporanea del misticismo ebraico, afferma che il vero rapporto di Mosè con Giosuè era quello di maestro e discepolo. Si trattava di una relazione interiore e spirituale, che si tradusse esteriormente nella successione di Giosuè, a beneficio degli israeliti:

« Moses... had obtained the perfect devekut [cleaving to God]... All this, Moses accomplished in the high place called Sinai which, sages have said, meant a state of meditation figuratively referred to as “Sinai,” as well as an actual mountain. Even the prophet’s own sons could not assume the teaching; only Joshua, who “did not depart” from Moses’ side, remaining in perfect hitbodedut [meditative seclusion] with him from his boyhood, could absorb the “tradition,” and pass it on to the generations which followed. »
(Epstein, Kabbalah: Way of the Jewish Mystic, p. 156)

Ma Giosuè e i suoi successori avevano un compito altrettanto impossibile. Nonostante la guida di Giosuè, il popolo continuò ad adorare gli idoli e a partecipare ai culti della fertilità – a ribellarsi, a dubitare e a dimenticare la realtà dell'unico Dio. Questo comportamento sarebbe continuato per i successivi millecinquecento anni. Più di ogni altra cosa, la storia raccontata dalla Bibbia potrebbe essere una grande allegoria dell'amore di Dio per un popolo ribelle: non importa quanto si comportassero male, Egli continuò a mandare i Suoi profeti per guidarli. Questo è un aspetto importante della devozione del profeta a Dio e al suo popolo, e si applica a tutti i profeti da questo momento in poi.

Note[modifica]

Per approfondire, vedi Serie misticismo ebraico, Serie delle interpretazioni e Serie maimonidea.
  1. Il Tempio di Gerusalemme fu costruito nel X secolo AEV dal re Salomone; il suo santuario interno chiamato il Santo dei Santi ospitava l'Arca dell'Alleanza, che conteneva le tavolette di pietra dei Dieci Comandamenti. Le ali spiegate di due cherubini (statue di angeli simili a sfinge) che coprivano l'arca erano considerate il trono di Dio, il luogo in cui la presenza divina si sarebbe manifestata e si sarebbe lasciata contemplare. Dopo la sua distruzione nel 587 AEV, il Tempio fu ricostruito intorno al 515 AEV e infine definitivamente distrutto dai romani nel 70 EV.
  2. Drob, Kabbalistic Metaphors, pp. 94–95.
  3. Encyclopedia of World Myth, e Myth, Legend, and Folk Belief in East Asia. Cfr. anche Patanjali, Thoughts on Indian Mysticism, p. 34.
  4. Diversi manoscritti ed edizioni stampate riportano qui: (EN) “sons of Elohim, wise of the generation, and whoever are privileged to contemplate it discover higher wisdom” [footnote 1042 in Matt, The Zohar: Pritzker Edition, vol. 1, p. 238].
  5. Na’ar (giovane/ragazzo) è il termine usato nella Bibbia (Proverbi 22:6) che veniva misticamente interpretato come l'angelo principale, chiamato Metatron dai mistici della merkavah, che lo descrivevano mentre tesseva ghirlande dalle benedizioni recitate nelle preghiere degli ebrei, e creando corone con queste ghirlande per il “capo” di Dio, che siede sul trono superno.
  6. Zohar 1:37b, in Matt, The Zohar: Pritzker Edition, vol. 1 (Palo Alto, CA: Stanford University Press, 2004), pp. 237–239.
  7. Cfr. Fohr, Adam and Eve, pp. 39–41.
  8. Cfr. Zohar 1:79b, in The Zohar, Sperling & Simon, trad., vol. 1, pp. 268–269.
  9. Abramo era originariamente chiamato Abram. Quando si circoncise si attaccò al nome di Dio. L'aggiunta della sillaba finale evoca il divino poiché fa parte del nome divino ebraico: /ˈeɪbrəhæm, -həm/; ebr: אַבְרָהָם‎, Moderno: ’Avraham, Tib: ’Aḇrāhām; greco bibl. Ἀβραάμ, Abraám; arab. إبراهيم‎, Ibrāhīm.
  10. Green, Ehyeh: A Kabbalah for Tomorrow, p. 24.
  11. Zohar 1:102b, in Matt, The Zohar: Pritzker Edition, vol. 2, pp. 128–29.
  12. Talmud babilonese, Trattato Sukkah 45b, citato da O. Maimonide, Il trattato della piscina, p. 112.
  13. Cfr. Zohar 1:83a, in The Zohar, Sperling & Simon, vol. 1, p. 276: (EN) ⟨The rabbis are in discussion about Abram’s journeys, and Rabbi Abba comments that the Bible makes a point of saying that he went to the South. Rabbi Simeon then gives his interpretation: “Observe that these words have an inner meaning, and indicate to us that Abram went down to the ‘lower degrees’ in Egypt, and probed them to the bottom, but clave not to them and returned unto his Master. He was not like Adam, who, when he descended to a certain grade, was enticed by the serpent and brought death upon the world; nor was he like Noah, who, when he descended to a certain grade, was enticed and ‘drank of the wine and became drunk and was uncovered in the midst of his tent’ (Genesis 9:21). Unlike them, Abram came up again and returned to his place, to the upper grade to which he had been attached previously. This whole incident is related in order to show that he was steadfast in his attachment to Wisdom, and was not seduced, and returned to his former condition. ‘Into the South’: this is the higher grade to which he was attached at first, as it is written, ‘going on still to the South.’ The inner significance of this narrative is that if Abram had not gone down to Egypt and been tested there, his portion would not have been in the Lord.”⟩
  14. La gloria del Signore è normalmente intesa come la manifestazione visiva della presenza di Dio. Successivamente i mistici ebrei la chiamarono la prima espressione del potere creativo o volontà di Dio, l’angelo o logos. Era anche usata come sinonimo della Shekhinah, la presenza interiore di Dio.
  15. Cfr. Zohar 2:20b–21a, in The Zohar, Sperling, Simon, & Levertoff, vol. 3, pp. 295–296. Cfr. anche Kaplan, Meditation and the Bible, pp. 7–8.
  16. Kaplan, Meditation and the Bible, p. 2.
Serie misticismo ebraico
Libri nella serie: Messianismo Chabad e la redenzione del mondo  •  Introduzione allo Zohar  •  Isaac Luria e la preghiera  •  Il Nome di Dio nell'Ebraismo  •  Rivelazione e Cabala  •  Storia intellettuale degli ebrei italiani  •  Abulafia e i segreti della Torah  •  Israele – La scelta di un popolo  •  Nahmanide teologo  •  Evoluzione del monoteismo  •  Etica della salute  •  Il Chassidismo di Elie Wiesel  •  La teologia di Heschel  •  Ebraismo chassidico  •  Questo è l'ebraismo!  •  I due mondi dell'ebraismo  •  Ispirazione mistica  •  Tradizione ebraica moderna
Bibliografie & Glossari: 1  •  2  •  3  •  4  •  5  •  6  •  7  •  8  •  9  •  10  •  11  •  12  •  14  •  15  •  17  •  18