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Ispirazione mistica/Capitolo 8

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Ritratto di Mosè Maimonide, il Rambam

Filosofi e maimonidei

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Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Meditazione ebraica.

Gli Ebrei nel mondo dell'Islam

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L'obiettivo principale dei mistici del periodo pre-musulmano era l'esplorazione dei misteri della creazione e della natura di Dio, attraverso l'uso di varie tecniche di meditazione tra cui il viaggio interiore sulla merkavah. A livello exoterico, questa stessa leadership spirituale-religiosa continuò a sviluppare il codice legale e religioso attraverso il quale guidare e definire la comunità sia in Palestina che nella diaspora. Questo lavoro fu continuato sotto i geonim (saggi), i leader ufficialmente nominati della comunità ebraica nella Babilonia governata dai persiani dal VI all'XI secolo. Sono loro che preservarono molti dei testi heikhalot e merkavah.

Per lo più i geonim avevano un'influenza conservatrice, incline all'istituzione della legge talmudica. Tuttavia, ci furono alcuni che fornirono anche una forma di leadership più spirituale, in particolare uomini come Saadya Gaon nel X secolo. Nato alla fine del IX secolo in Egitto, Saadya si trasferì a Babilonia nel 922 e pochi anni dopo divenne capo dell'accademia di Sura. Scrisse un commentario illuminante sul mistico Sefer yetsirah e molti libri sulla grammatica ebraica, la legge ebraica, il calendario, la liturgia e la filosofia. Poiché era principalmente un filosofo, forse Saadia non insegnò un percorso puramente mistico verso la percezione/consapevolezza di Dio; tuttavia, il suo lavoro fornì il vocabolario e il contesto intellettuale affinché gli ebrei potessero interagire con il mondo musulmano ed entrare in contatto con i suoi filosofi e mistici.

Gli ebrei inclini alla mistica trovarono spiriti affini nei mistici musulmani sufi tra i quali vivevano. C'è stata una lunga storia di influenze reciproche tra ebrei e sufi musulmani dagli inizi dell'Islam fino alla fine dell'impero islamico nel XV secolo. Paul Fenton è uno studioso contemporaneo del sufismo ebraico che ha tradotto testi ebraici sufi. Egli riassume i primi periodi:

« Historically, it was Judaism, through the edifying legends of the rabbis that circulated in the Islamic world under the name of Isra’iliyyat, that first influenced the ascetic trends in Sufism in its formative years. . . . [Later,] Jews were to be found attending the lectures of early masters of Baghdad, and the eleventh century historiographers of Sufism have conserved stories about the miraculous conversion of Jews to Islam through contact with Islamic mystics. . . . Traces of Muslim ideas on the vanity of the nether-world and the felicity of the hereafter, gained through ascetic devotions, are to be found in the works of the tenth century Jewish authors of the East who display an appreciable degree of familiarity with the Sufi way of life. More pronounced evidence of Sufi influence on Jewish literature is to be found in Muslim Spain, where there had been a widespread flowering of Sufism in the tenth century. »
(Fenton in Obadyah Maimonides, Treatise of the Pool, Introduction, pp. 1–2)

Nell'XI secolo, l'ebraismo fiorì in Spagna sotto un dominio islamico tollerante. Ci fu un rapporto poroso tra filosofi e mistici ebrei e musulmani dal IX secolo al XII secolo, periodo in cui l'intollerante dinastia almohade salì al potere. L'influenza degli insegnamenti sufi sugli scritti di filosofi ebrei come Solomon ibn Gebirol e Bahya ibn Pakuda fu marcata, ma non è chiaro se essi stessi seguissero un percorso mistico interiore sotto la guida di maestri sufi. Alcune delle opere di questi autori ebrei erano quasi copie dirette di manuali sufi. Yosef ibn Aqnin (l'autore del XII-XIII secolo di un commentario di ispirazione sufi sul Cantico dei Cantici), nella sua opera Terapia delle anime, cita ampiamente i detti di mistici precedenti come al-Junayd (m. 910) e ibn Adham, che chiama rispettivamente sayh at-ta ‘ifa (l'anziano della comunità) e ar-ruhant al-akmal (il Santo perfetto).[1]

Solomon ibn Gebirol, conosciuto anche con il suo nome latino, Avicebron, nacque a Malaga, in Spagna, e visse a Saragozza. Nel suo poema epico "Corona di regalità" (Keter malkut) e nel suo trattato La fonte della vita (Mekor hayim; in latino, Fons Vitae), insegnò un sistema filosofico che incorporava concetti neoplatonici e sufismo. È noto che fu influenzato dalla scuola del sufi andaluso di Cordoba, ibn Masarra.[2] Tuttavia, è difficile sapere se ibn Gebirol fosse lui stesso un mistico praticante o un filosofo che scriveva sui concetti sufi. Molto probabilmente, potrebbe aver funzionato in entrambe le arene.

Il titolo de La fonte della vita deriva da un versetto del Salmo 36: "Poiché in te è la fonte della vita e per la tua luce noi vediamo la luce" (36:9). Riassumendo le idee principali del suo libro: Sia la “forma universale” che la “materia universale” vengono create nel tempo, come una serie di emanazioni dalla fonte primordiale di Luce. Ogni attività procede dalla volontà divina, che è una forza che pervade ogni cosa nella creazione. Al di là si trova il reame dell'essere divino, che può essere conosciuto solo attraverso la conoscenza della volontà. Questa conoscenza porta alla beatitudine. Per ottenerla bisogna rinunciare ai piaceri mondani e attaccarsi solo a Dio.

In “Corona della regalità”, che per molti aspetti è basato su La fonte della vita, scrive dello stato dell'anima, dicendo che tutte le creature desiderano avvicinarsi a Dio sulla via regale, ma si sono smarrite e sono cadute. Dice che il vero discepolo, "marciando sulla retta via, non gira né a destra né a sinistra, finché non entra nel cortile del palazzo del Re". Quindi descrive Dio come Colui che sostiene tutta la creazione con la sua divinità e sostiene tutta l'esistenza con la sua unità. Non c’è distinzione tra la divinità, l'unità, l'eternità e l'esistenza del Signore perché è tutto un unico mistero. Tutta la vita scaturisce da Dio. Descrive la meta del viaggio interiore: "Tuo è il nome nascosto, dalle dimore della Sapienza. . . . Tu sei il Vivente, e chi giunge al Tuo mistero trova il diletto eterno; mangia e vive per sempre".[3]

Bahya ibn Pakuda dello stesso periodo scrisse un'opera mistica influente in arabo, chiamata Il Libro della Direzione dei Doveri del Cuore (al-Hidaya ila fara’id al-qutub; in ebraico, Hovot ha-levavot). Tradotto in molte lingue, fin dalla sua comparsa è stato molto amato in tutto il mondo ebraico. Il suo argomento è la vita del vero servitore, il devoto che aspira alla vita mistica. In esso distingue tra i “doveri delle membra” – i comandamenti pratici e rituali, e i “doveri del cuore” – il comandamento spirituale di adorare Dio con il cuore. Questa opera è rivoluzionaria, poiché indirizza il devoto a elevarsi al di sopra dei sensi e dell'adorazione fisica esteriore di Dio; ritiene che il culto interiore sia preferibile a tutti i precetti e le preghiere tradizionali dell'ebraismo. Sebbene questo concetto fosse quasi eretico, fu adottato dagli ebrei medievali senza controversie. Bahya non scarta totalmente i rituali e le preghiere esteriori e sollecita la sostituzione della preghiera interiore e della meditazione, ma sottolinea l'importanza di un'intensa focalizzazione interiore dell'anima verso Dio anche durante l'esecuzione degli atti esteriori. Esorta il devoto ad acquisire una comprensione dell'unità divina; di fede, fiducia e amore di Dio; di pentimento spirituale piuttosto che di espiazione ritualizzata, e così via. Tutto ciò ha un aspetto mistico.

Non si può dire se Bahya abbia intrapreso personalmente il viaggio spirituale interiore, poiché non si sa quasi nulla della sua vita. Tuttavia, gli studiosi ritengono che conoscesse i sufi musulmani e leggesse le loro opere. Doveri si legge come uno sforzo letterario che imita lo stile e il contenuto dei manuali devozionali sufi, che erano correnti a quei tempi.

Nel frattempo, le persecuzioni almohadi in Spagna e le crociate in Terra Santa avevano fatto sì che un gran numero di profughi aumentasse la popolazione ebraica dell'Egitto. Fenton scrive:

« These social upheavals together with mounting intolerance both from without and within the Jewish fold, encouraged mystical aspirations amongst Egyptian Jewry. Indeed there arose a spiritual elite, who, . . . drawing their inspiration from a form of Sufism which owed much to al-Ghazzali, introduced a creative change in the flow of intellectual life and paved the way for the rapprochement of philosophy and mysticism which was to characterize subsequent Jewish thought for generations to come. The exact time and personalities involved in the emergence of this tendency remain shrouded in mystery but it seems that at the time of the great scholar and leader Moses Maimonides, and perhaps even in preceding generations, a number of Jews had begun to adopt Sufi practices. »
(Fenton, Treatise of the Pool, p. 4.)

La Famiglia Maimonide

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Per approfondire, vedi Serie maimonidea.

Tra i rifugiati profughi dalla Spagna verso l'Egitto c'era la famiglia Maimonide. Mosè Maimonide (1135–1204) si assunse compiti difficili e dispendiosi in termini di tempo come medico per il Sultano, la nobiltà e la popolazione in generale, ma servì anche come capo ufficiale della comunità ebraica di Fostat (il vecchio Cairo). E, nonostante tutti questi obblighi sociali, trovò comunque il tempo per agire come guida spirituale e scrivere importanti opere di filosofia, scienza e religione. La sua opera più nota è la Guida dei perplessi, che scrisse in un periodo di undici anni per un discepolo intimo. Scrisse anche opere di logica, astronomia, medicina e diritto; commentari alla Mishnah e al Talmud; e un codice sistematico della legge ebraica. Compose saggi di attualità su questioni del suo tempo e mantenne un'ampia corrispondenza con persone di tutto il mondo che lo consultarono su problemi di filosofia e religione. Ho dedicato a Maimonide gran parte dei miei studi ebraici e ne ho lasciato traccia su Wikibooks nella relativa Serie maimonidea a cui riferisco i lettori interessati ad approfondire il pensiero di questo grande figura dell'ebraismo.

Il risultato chiave di Maimonide dal punto di vista intellettuale è che fu in grado di sintetizzare la visione del mondo intellettuale e logica greca – dipendente dalla ragione come base per la conoscenza di se stessi e del potere divino – con la visione del mondo rabbinica, che dipendeva dalla fede, dalle Scritture e dalla rivelazione. Nei suoi scritti esamina le ingiunzioni scritturali e le credenze ebraiche tradizionali utilizzando gli strumenti della logica e dell'analisi aristotelica. Ma ci sono anche sezioni dei suoi scritti sulla profezia che implicano che fosse influenzato dagli insegnamenti islamici sufi e che apprezzasse il valore della meditazione per indurre lo stato mistico. Quindi, sebbene la sua importanza storica sia quella di filosofo e intellettuale, fu la visione di Maimonide della profezia come qualcosa di raggiungibile in tutti i periodi che influenzò fortemente il concetto di maestro spirituale nei tempi successivi.

Alcuni si chiedono perché la Guida dei perplessi sia scritta in un linguaggio difficile e spesso velato. Sebbene Maimonide avesse molti ammiratori ai suoi tempi, ebbe anche molti detrattori a cui non piaceva la sua presentazione sistematica del codice della legge ebraica, né apprezzavano il suo approccio scientifico radicale ad altri aspetti dell'ebraismo. Dopo la sua morte, infatti, i suoi insegnamenti furono considerati eretici e molti dei suoi libri furono bruciati. L'approccio razionale era visto come una minaccia alla religione tradizionale che era basata sull'autorità rabbinica, non sull'intelletto o sulla ragione. Forse è per questo che espresse la sua passione per il misticismo in modo obliquo e indiretto, sepolto nelle sue opere intellettuali.

In una lettera a un collega, scrisse esplicitamente dei limiti dell'intelletto e del potenziale per una conoscenza spirituale superiore attraverso la profezia, che è “la condizione vitale energizzante che stabilisce il canale che collega l’uomo con Dio”.[4] Per raggiungere la vera conoscenza, bisogna elevarsi allo stato di profezia, dove la logica e la ragione non si applicano. La conoscenza umana rimane nel regno della natura, ma la conoscenza del divino può essere raggiunta solo attraverso la profezia, al di là dell'intelletto. Maimonide scrive:

« Ritengo che la conoscenza umana sia limitata e finché l'anima è nel corpo non può conoscere ciò che è al di là della natura. Non può vedere oltre, perché è confinato nella natura. Così, quando la nostra intelligenza dovesse cercare di sondare l'aldilà, non sarà in grado di farlo, perché questo argomento è fuori dalla sua portata. Solo ciò che è nella natura essa può conoscere e contemplare. . . . Ma sappi che esiste un livello di conoscenza oltre quello della conoscenza dei filosofi, e questa è profezia. La profezia è un altro mondo e qui prove e argomentazioni non si applicano. Una volta accertato che abbiamo davanti a noi una visione profetica, non c’è più bisogno di prove a sostegno. »
(Moses Maimonides, Letter to Rabbi Hisdai ha-Levi, cit. in Bokser, Jewish Mystical Tradition, p. 75, cfr. Heschel, Maimonides: A Biography, J. Neugroschel, p. 245 - mia trad.)

Scrivendo sui limiti della mente nell'ottenere la vera conoscenza di Dio, Maimonide asserisce: "Non importa quanto la mente possa sforzarsi di conoscere Dio, troverà una barriera; la materia è un potente muro divisorio".[5] Vedeva lo stato di hitbodedut (autoisolamento), lo stato meditativo di isolarsi mentalmente dal mondo, come la via per sviluppare l'amore interiore per il Signore:

« È risaputo che l'amore del Santo, lodato sia Lui, non può fissarsi nel cuore di una persona se non vi medita costantemente. . . e deve ritirarsi da tutto il resto del mondo. »
(Moses Maimonides, Mishneh Torah, hilkhot teshuvah, 10:1, cit. in Bokser, Jewish Mystical Tradition, p. 81 - mia trad.)

Maimonide dedicò una lunga sezione della Guida alla discussione della profezia. Fu la sua descrizione della natura del profeta e dei vari livelli di profezia presentati nella Bibbia che informò tutto il futuro pensiero ebraico sul concetto del profeta come maestro mistico e spirituale. La profezia, secondo Maimonide, non è limitata ai profeti biblici; piuttosto, è un termine che descrive un livello o stato di coscienza raggiunto attraverso l'esperienza interiore e mistica, in cui un'emanazione continua dell'essere divino viene trasmessa attraverso il mezzo dell'Intelletto Attivo.[6] Può essere raggiunto dai praticanti mistici in qualsiasi periodo storico se possiedono determinate qualità – una facoltà immaginativa superiore e una perfezione morale e mentale raggiunta attraverso l'auto-addestramento e l’autodisciplina.

Diversi studiosi moderni di Maimonide hanno fornito una nuova lettura di Maimonide come mistico. Ad esempio, Louis Jacobs commenta il capitolo 51 della terza parte della Guida:

« The conventional understanding of Maimonides as the supreme rationalist and philosopher requires considerable qualifications. This chapter is a remarkable illustration of the mystical tendencies in Maimonides’ thought, but . . . a careful reading between the lines demonstrates even more, that, in fact, what Maimonides is offering his pupil – for whom he wrote this book – is a method for attaining to the gift of prophecy, which Maimonides believed he himself had attained, at least in its lower stages.[7] . . . Seen in this way, as it should be, the statement is a kind of manual for the attainment of the lower degrees of prophecy.[8] »

In questo capitolo della Guida,[9] Maimonide delinea come il discepolo dovrebbe intraprendere hitbodedut, l’adorazione di Dio che lo porterà alla conoscenza. Il fatto che Maimonide usi il termine hitbodedut nello stesso modo in cui lo usava suo figlio, Abraham Maimonides, un praticante mistico sufi dichiarato, implica che Maimonide padre fosse anche impegnato nell'insegnamento della pratica di meditazione. Mi prendo la libertà di fornire qui alcune lunghe citazioni dagli insegnamenti di Maimonide, poiché è piuttosto interessante seguire l'approccio metodico di questo grande filosofo alla pratica della meditazione e riconoscere il suo ruolo di insegnante del percorso spirituale. Inizia con una citazione dalla Bibbia:

« “Amare il Signore tuo Dio e servirlo con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima” (Deuteronomio 11:13). Ora abbiamo più volte chiarito che l'amore di Dio è proporzionato alla conoscenza di Lui. Dopo l'amore viene questo culto sul quale hanno attirato l'attenzione anche i Saggi, che sia benedetta la loro memoria, i quali dissero: “Questa è l'adorazione del cuore”. Secondo me consiste nel concentrare la mente sul Primo Intelletto e meditare su di esso [hitboded] per quanto possibile secondo le proprie capacità. . . . È stato così dimostrato che il proprio scopo, dopo aver raggiunto l'illuminazione, dovrebbe essere quello di donarsi a [Dio] e far sì che il proprio intelletto aneli a Lui in ogni momento. Nella maggior parte dei casi, ciò si ottiene attraverso la solitudine e l'isolamento. Ogni individuo pio dovrebbe quindi tendere all'isolamento e alla meditazione [hitbodedut], non associandosi con gli altri tranne quando assolutamente necessario.[10] »

Sottolinea che l'individuo ha la possibilità di rafforzare il suo legame con Dio immergendosi totalmente nel pensiero di Lui e meditando su di Lui, oppure di indebolire il legame pensando alle questioni mondane. In effetti, è lo spirito santo, il potere divino, che egli chiama l'Intelletto Attivo, ad essere il legame eterno. Altrove estende questo pensiero sostenendo che finché la mente di una persona è totalmente focalizzata su Dio e non coinvolta in alcun affare mondano, nessun male o incidente può accadergli. È sotto la protezione di Dio durante la sua meditazione. Ma una volta che la sua mente si concentra su preoccupazioni legate al cibo, alla casa o agli affari, diventa vulnerabile.

« Un richiamo all'attenzione. Ti abbiamo già chiarito che quell'Intelletto Attivo [potenza creativa o spirito] che traboccò da Lui, che Egli sia esaltato, verso di noi, è il legame tra noi e Lui. A te la scelta: se vuoi rafforzare e fortificare questo legame, puoi farlo; se però vuoi renderlo via via sempre più debole fino a tagliarlo, puoi fare anche così. Puoi rafforzare questo legame solo impiegandolo nell’amarLo e nel progredire verso questo, proprio come abbiamo spiegato. E diventa sempre più debole se occupi il tuo pensiero con ciò che è diverso da Lui. . . . Allora non saresti con Lui, né Lui con te. Perché quella relazione tra tu e Lui in quel momento è effettivamente interrotta.[11] »

Continua sottolineando l'importanza della concentrazione totale e dell'eliminazione di tutti gli altri pensieri durante la meditazione. Attraverso questo tipo di formazione si diventerà degni della conoscenza di Dio:

« D'altra parte, mentre compi le azioni imposte dalla Torah, dovresti occupare il tuo pensiero solo con ciò che stai facendo, proprio come abbiamo spiegato. Quando invece sei solo con te stesso e non c'è nessun altro e mentre giaci sveglio sul tuo letto, dovresti stare attento durante questi momenti preziosi a non concentrare il tuo pensiero su nient'altro che su quel culto intellettuale che consiste nella vicinanza a Dio e l'essere alla Sua presenza in quella realtà vera che vi ho fatto conoscere e non per affetti di immaginazione. Secondo me questo fine può essere raggiunto da quegli uomini di scienza che ne hanno reso l'animo degno con una formazione di questo genere. »
(Moses Maimonides, Guide of the Perplexed, Pines, vol. II, p. 623 - mia trad.)

Raggiungendo questo livello, si sarà in grado di mantenere la propria attenzione in Dio pur essendo in compagnia di altre persone.

« E può esserci un individuo umano che, attraverso la sua conoscenza delle vere realtà e la sua gioia per ciò che ha percepito, raggiunge uno stato in cui parla con le persone e si occupa delle sue necessità corporee mentre il suo intelletto è completamente rivolto a Lui, sia Egli esaltato, affinché nel suo cuore sia sempre alla Sua presenza, . . . mentre esteriormente è con la gente, nel modo descritto dalle parabole poetiche che sono state inventate per quelle nozioni: “Dormo, ma il mio cuore veglia; è la voce del mio diletto che bussa”, e così via. Non dico che questo rango sia quello di tutti i profeti; ma dico che questo è il grado di Mosè, nostro Maestro. »
(Moses Maimonides, Guide of the Perplexed, Pines, vol. II, p. 623 - mia trad.)

Come si dovrebbe meditare? Dice che si dovrebbe ripetere lo Shema, la dichiarazione dell'unità di Dio, per lunghi periodi di tempo, con piena concentrazione, eliminando i pensieri estranei dalla mente. Questa formazione richiede anni per essere perfezionata.

« Da qui in poi inizierò a darti indicazioni riguardo alla forma di questo addestramento affinché tu possa raggiungere tale grande scopo. La prima cosa a cui dovresti far sì che la tua anima si aggrappi saldamente è che, mentre reciti la preghiera Shema, dovresti svuotare la tua mente da tutto e pregare così. Non dovresti accontentarti di essere intento mentre reciti il primo versetto di Shema e dici la prima benedizione. Quando questo è stato eseguito correttamente ed è stato praticato con costanza per anni, dovresti fare in modo che la tua anima, ogni volta che leggi o ascolti la Torah, sia costantemente diretta – tutto te stesso e il tuo pensiero – verso la riflessione su ciò che stai ascoltando o leggendo. Dopo aver praticato con costanza anche questo per un certo tempo, fa' che la tua anima sia tale che il tuo pensiero sia sempre del tutto libero da distrazioni e presta attenzione a tutto ciò che leggi degli altri discorsi dei profeti e anche quando leggi tutte le benedizioni, così che miri a meditare su ciò che dici e a considerarne il significato. »
(Moses Maimonides, Guide of the Perplexed, cit., vol. II, p. 622)

Ora poi spiega che l'amore è la qualità fondamentale necessaria per avvicinarsi a Dio. "Il cuore dell'individuo trabocca d'amore come risultato della sua contemplazione su Dio".[12] Il seguente passaggio della Guida influenzò particolarmente i maestri chassidici della Polonia di fine XVIII e XIX secolo nella loro concezione di devekut – devozione o fusione in Dio. Citando i Salmi, dice:

« "Poiché ha rivolto a Me il suo amore appassionato, perciò lo libererò; Lo innalzerò perché ha conosciuto il Mio nome". Abbiamo già spiegato nei capitoli precedenti che il significato di “conoscenza del Nome” è: conoscenza di Lui [illuminazione]. È come se il Salmo dicesse che questo individuo è protetto perché Mi ha conosciuto e Mi ha amato appassionatamente. Conosci la differenza tra i termini “colui che ama” [ohev] e “colui che ama appassionatamente” [hoshek]. Un eccesso di amore [mahabbah], così che non rimanga alcun pensiero diretto verso una cosa diversa dall'Amato, è amore appassionato [ishk]. »
(Moses Maimonides, Guide of the Perplexed, cit., vol. II, p. 627[13])

Descrive lo stato che una persona alla fine raggiunge seguendo questo percorso di devozione totale tramite la meditazione, controllando le sue passioni e l'inclinazione al male che aveva impedito il suo progresso in gioventù. Infine, alla sua morte, si sarà perfezionato e l'anima lascerà il suo corpo “in uno stato di piacere”:

« I filosofi hanno già spiegato che le facoltà corporee impediscono nella giovinezza il conseguimento della maggior parte delle virtù morali, e tanto più quella del pensiero puro, che si consegue attraverso la perfezione degli Intelletti che conducono all'amore appassionato di Lui, sia Egli esaltato. Infatti è impossibile che ciò avvenga mentre gli umori del corpo sono in effervescenza. Ma nella misura in cui le facoltà del corpo si indeboliscono e si spegne il fuoco dei desideri, l'Intelletto si rafforza, le sue luci raggiungono una più ampia estensione, la sua capacità di percepire si purifica e si rallegra di ciò che percepisce. Il risultato è che quando un uomo perfetto è afflitto dagli anni e si avvicina alla morte, questa illuminazione aumenta in modo molto potente, la gioia per questa illuminazione e un grande amore per l'oggetto della conoscenza diventano più forti, fino a quando l'anima si separa dal corpo in quel momento e in questo stato di piacere.[14] »

In alcuni dei suoi altri scritti Maimonide discusse l'importanza della meditazione come un modo per entrare nei “misteri” (il pardes o giardino segreto), raggiungendo il livello dello spirito santo e ascendendo al livello di Dio, il Trono di Gloria.

« Un individuo che possiede tutte le qualifiche necessarie può approfondire i misteri [pardes], avanzando in questi concetti profondi e sottili e acquisendone una salda comprensione e percezione. Allo stesso tempo, deve anche santificarsi e separarsi dalle vie delle masse, che brancolano nell'oscurità dei tempi. Deve acquisire una diligenza costante nel non pensare nemmeno a ciò che non è essenziale o considerare le vanità e gli intrighi attuali.
Una persona del genere deve lavorare su se stessa fino a quando la sua mente è costantemente chiara e diretta verso l'alto. Deve legare il suo intelletto al Trono di Gloria, sforzandosi di comprendere la purezza e la santità del trascendentale. Deve inoltre contemplare la saggezza di Dio in ogni cosa, comprendendone il vero significato, sia che si tratti dell'entità spirituale più alta o della cosa più bassa sulla terra. L'individuo che fa questo diventa immediatamente degno di ruah ha-kodesh.
Quando raggiunge questo spirito, la sua anima viene legata al livello degli angeli. . . e diventa una persona completamente diversa. Ora può comprendere le cose con una conoscenza completamente diversa da qualsiasi cosa abbia mai sperimentato in precedenza. Il livello che ha raggiunto è molto al di sopra di quello degli altri uomini, che possono usare semplicemente il loro intelletto. Questo è il significato di ciò che [il profeta Samuele disse] al re Saul: “[Lo spirito di Dio scenderà su di te], profetizzerai con loro e sarai trasformato in un altro uomo” (1 Samuele 10:6). »
(Moses Maimonides, Yad yesodei ha-torah 7:1)

Fu Maimonide il primo a formulare e insegnare la moderna concezione ebraica della profezia e di come l'individuo potesse elevarsi al livello profetico.

Poiché gli studiosi hanno riscontrato una forte influenza sufi negli scritti di Maimonide, soprattutto negli ultimi capitoli della Guida, hanno presunto che egli stesso avesse compiuto qualche progresso interiore in tale direzione. Seguendo più apertamente le pratiche mistiche sufi fu il figlio di Maimonide, Abraham Maimonide (1186-1237), alcuni dei cui manoscritti furono scoperti nella Genizah del Cairo, una biblioteca nascosta nella soffitta di un'antica sinagoga, che fu portata alla luce alla fine del XIX secolo.

La Genizah ha portato alla luce una raccolta di scritti mistici del XIII secolo, che rivelano la natura della maestria spirituale e della pratica spirituale dei sufi ebrei di quel periodo. Dimostra anche il grande interesse ebraico per le pratiche mistiche legate ai sufi. Nella Geniza c'erano molti manoscritti islamici sufi copiati in caratteri ebraici e alcuni nell'originale arabo. C'erano anche scritti dei primi sufi ebrei, inclusa la corrispondenza tra Abraham Maimonide e i suoi discepoli, e tra Abraham he-Hasid, un altro mistico di quel periodo, e uno dei suoi seguaci.

I mistici ebrei sufi erano chiamati hasidim (pietisti, devoti) in molti dei manoscritti trovati nella Genizah. Come abbiamo visto in altri periodi, il termine si riferisce ai seguaci di un maestro spirituale, e talvolta ai maestri stessi. Bahya ibn Pakuda, nel suo Doveri del cuore, "equates the hasid with the highest degree of devotion, that of the ‘prophets and saints’".[15] Hasid è stato anche messo in relazione con la hasidah, la “cicogna”, alludendo "to those who shun the corruption of mankind and, like the stork, seek the solitude of the wilderness in the sole company of their master".[16] Fenton osserva che "several generations of Maimonides’ ancestors are referred to with this title, which seems to connote something more than just ‘piety’".[17] Esaminando questi manoscritti, possiamo farci un'idea delle pratiche spirituali dei hasidim e di come adattarono la terminologia e gli stili letterari islamici sufi ai propri scopi.

Abraham he-Hasid e Abraham Maimonide

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Frammento dalla Genizah del Cairo, lettera scritta da Abraham Maimonide

Uno dei hasidim più importanti fu Rabbi Abraham he-Hasid (morto nel 1223), che fu spesso confuso con Abraham Maimonide perché condividevano lo stesso nome. Probabilmente era il maestro di Abraham Maimonide, poiché il giovane Maimonide lo definisce "il nostro maestro sul Sentiero del Signore".[18] Alcuni scritti di Abraham he-Hasid furono trovati nella Genizah del Cairo, incluso un commento al Cantico dei Cantici, che è visto come una guida per il praticante spirituale ad elevarsi attraverso i vari livelli fino all'unione con Dio. Come altra letteratura prodotta dai circoli dei sufi ebrei, i suoi scritti furono probabilmente influenzati dalla scrittura mistica dei sufi musulmani, ma riflettono “una dottrina originale e specificamente ebraica”.[19]

Abraham Maimonide, come suo padre Mosè, fu una figura importante attiva sia nella sfera mondana che in quella spirituale. Era un hasid devoto, come si può vedere nella sua opera Kifayat al-abidin (Il Compendio per i Servi di Dio, noto come Kifaya) – un manuale per la vita spirituale, che era simile alla Hidaya di Bahya ibn Pakuda nelle sue intenzioni ma che più riconosce apertamente le conquiste spirituali dei sufi musulmani. Egli identifica “la disciplina dei mistici islamici con quella degli antichi profeti d’Israele”, affermando: “Non considerare sconveniente il nostro paragone con il comportamento dei sufi, poiché questi ultimi imitano i profeti (di Israele) e camminano sulle loro orme, non i profeti sulle loro”.[20]

Abramo illustra i suoi insegnamenti con citazioni ed esempi tratti dalla Bibbia e dalla letteratura rabbinica “nel tentativo di ritrarre le sue innovazioni pietiste (hasidiche) come un ripristino di pratiche che un tempo erano quelle dei profeti dell'antico Israele e che ora erano cadute nelle mani dei mistici islamici. . . . È degno di nota a questo riguardo che i pietisti ebrei spesso si riferissero a se stessi come ai ‘discepoli dei Profeti’”.[21]

Anche il figlio maggiore di Abraham Maimonide, David, succeduto ad Abraham come capo della comunità ebraica egiziana, era probabilmente un hasid, ma non sembra aver assunto il ruolo di maestro. Il figlio minore di Abraham, Obadyah (1228–1265), tuttavia, fu la guida spirituale di un gruppo di sufi ebrei della sua generazione, per i quali scrisse il suo libro, Il trattato della piscina.

Obadyah era considerato con grande riverenza dagli ebrei del suo tempo quale maestro dei segreti esoterici e della saggezza divina, come attestato da una lettera trovata nella Genizah:

« Per quanto riguarda il nostro glorioso insegnante e Maestro Obadyah, l'eminente Saggio al quale vengono rivelati i misteri, nel quale “si trovano luce, intelligenza e saggezza pari alla saggezza degli angeli” (Daniele 5:11), "nessun segreto lo mistifica, si sdraia e tutto gli viene rivelato" (Daniele 4:6).[22] »

Poiché l'influenza di Obadyah era a livello esoterico, e forse perché era meno coinvolto negli affari della comunità rispetto a suo fratello David, lui e il suo lavoro caddero nell'oscurità dopo poche generazioni, quando i sufi ebrei scomparvero. Il Trattato andò perduto finché non fu riscoperto a metà del diciannovesimo secolo, e fu convalidato come opera di Obadyah solo di recente.[23]

Lo stile di scrittura di Obadyah è sconclusionato e misticamente lirico e si basa sugli scritti di suo padre e di suo nonno. Per certi aspetti si tratta di un ampliamento dei capitoli finali della Guida dei perplessi di suo nonno, che abbiamo citato sopra, ma con un'enfasi più esplicitamente mistica.

Il Trattato è un manuale per la persona che percorre il sentiero spirituale. Sottolinea l'importanza del maestro spirituale e allude alla presenza di maestri spirituali in tutto il corso della storia ebraica. Esorta il ricercatore a prepararsi adeguatamente per percorrere il sentiero e servire Dio, separandosi dalle attività materiali sensuali o volgari e attaccandosi all'attività superiore: la Ragione (un'allusione all'Intelletto Attivo o logos). Inoltre esorta il ricercatore a frequentare la compagnia dei virtuosi, dei hasidim e degli illuminati spiritualmente. L'obiettivo del percorso mistico è raggiungere la comunione divina, uno stato di beatitudine così onnicomprensivo che non si vorrà mai più sentirsi separati da Dio. Questa è un'esperienza individuale, sottolinea Obadyah:

« Ecco, dopo aver raggiunto questo stato, la tua estasi sarà così appassionata, che non sopporterai di essere separato da Lui, nemmeno per un istante. E man mano che la tua beatitudine aumenta, così aumenterà la tua passione e non ti diletterai più né del cibo né del bere né del riposo. Alla fine, però, sei solo tu a guadagnarci [da ciò], “se diventi saggio, diventi saggio per te stesso” (Proverbi 9:12). »
(Obadyah Maimonides, Treatise of the Pool, Fenton, trad., p. 93)

Anche se è molto aperto riguardo alla sua influenza sufi e alla sua prospettiva mistica, Obadyah sente ancora il bisogno di nascondere il suo vero significato. Ad un certo punto afferma:

« Sappi, tu che mediti questo trattato, che la questione alla quale abbiamo alluso qui non può essere esposta più apertamente. Pertanto, quando mi trovo di fronte a un versetto che può essere interpretato in diversi modi, il mio obiettivo è semplicemente quello di aprire la porta e fare affidamento sulla comprensione del discepolo. Se è dotato di perspicacia e intuizione [dawq] allora arriverà al vero significato attraverso le proprie risorse.[24] »

Obadyah porta interpretazioni simboliche per alcuni termini o concetti biblici. Poiché gran parte dei suoi scritti riguardano il conflitto tra anima e corpo, interpreta le allusioni bibliche a una città assediata dai nemici come l'anima assediata dalle passioni. Ad esempio, la ribellione dell'asino del profeta biblico Balaam è intesa come la ribellione della mente e della materia, che la sua anima non è riuscita a dominare.

Comprende l'"albero della vita" come la conoscenza spirituale ultima che porta la riunione dell'anima con la sua fonte divina. Egli interpreta la manna (il cibo con cui gli israeliti sopravvissero durante i loro quarant'anni di vagabondaggio nel deserto) come il nutrimento spirituale, la conoscenza divina, "che aveva lo scopo di portare la generazione del deserto alla perfezione spirituale (kamal)".[25] A permeare tutta l'opera sono i riferimenti all'acqua a livello simbolico, come nutrimento spirituale nel deserto del mondo. Nelle narrazioni bibliche, ad esempio, quando i patriarchi scavano pozzi, lo interpreta nel senso che stanno cercando un livello più elevato di spiritualità attraverso la pratica della meditazione. Nel Capitolo 10, paragona il cuore dell'uomo a una cisterna o piscina che deve essere riempita con acqua pura, ricordando la profezia di Geremia:

« Bisogna fare molta attenzione affinché nessuna impurità penetri nel cuore perché ciò potrebbe essere causa di errori fatali sul cammino spirituale, come quello di Elisha [ben Abuya], che scambiò il marmo per acqua. Una volta che il cuore sarà completamente purificato da tutto tranne che da Dio, allora l'acqua viva si riverserà in esso e i prodigi saranno rivelati. . . . Bisogna sempre tendere verso le acque perfette ed evitare “le cisterne rotte” (Geremia 2:13). . . . Il pozzo o la piscina come simbolo vivificante così naturale nelle terre aride dell'Oriente, gioca un ruolo importante sia nell'esoterismo islamico che in quello ebraico.[26] »

Come abbiamo visto in precedenza nella discussione sul profeta Mosè, i hasidim credevano di far rivivere un'antica tradizione spirituale che aveva avuto inizio con Adamo, era stata trasmessa ai patriarchi e poi a Mosè, che l'aveva trasmessa a Israele. Questa era la sostanza della rivelazione sul Sinai. Credevano che con l'esilio fosse andata perduta, ma ora aveva il potenziale per essere rianimata sotto la guida dei hasidim. Obadyah usa il termine “intercessore” per la guida spirituale, che media tra l'uomo e il Signore, spiegando che una persona senza intercessore è considerata morta:

« È chiaro che chi non ha trovato un intercessore che mediasse tra sé e il suo Amato è considerato morto. Una volta che avrai realizzato questo principio, allora ti vergognerai di invocare il Signore senza averlo raggiunto.
Infatti, "chi è e dov'è colui che potrebbe sopportare di stare davanti al Signore" (Ester 7:5) senza ricorrere a un mediatore, perché questa è pura impertinenza! Pertanto è nostro dovere cercare diligentemente un intercessore e trovarlo senza indugio, poiché egli è il nostro guardiano nel mondo inferiore e la nostra guida nel mondo eterno, e non pensare diversamente. »
(Obadyah Maimonides, Treatise of the Pool, cit., pp. 112–113)

Consiglia al discepolo di onorare e valorizzare il suo intercessore:

« O figlio mio, onora colui che media tra te e il tuo Creatore, sia Egli lodato, in quanto intercede per il tuo bene, poiché è “l'interprete tra di loro” (Genesi 42:23). Sforzati di conservare [la sua mediazione] perché la sua perdita è irreparabile.[27] »

Paul Fenton, traduttore del Trattato della Piscina di Obadyah, sottolinea il ruolo dei sufi ebrei come eredi e trasmettitori di questa rivelazione divina, lo stato di profezia. Non tutti erano qualificati per diventare hasid; piuttosto era competenza dell'élite. Abraham he-Hasid credeva che al momento della rivelazione della Torah, Dio intendesse concedere la capacità di assurgere allo stato profetico a tutto Israele, e che questa capacità avrebbe potuto essere mantenuta mediante una “continua osservanza di una disciplina spirituale”, intendendo con ciò la dottrina ebraica sufi, ma non tutti erano in grado di sfruttare questo potenziale di realizzazione spirituale interiore. La legge esterna o Torah fu quindi data loro affinché la massa del popolo potesse "avvicinarsi a questo stato".[28] Fenton cita un hasid anonimo dell'epoca:

« La Torah fu rivelata attraverso l'Apostolo Eletto che era l'élite [safwa] dei discendenti di Abramo, Suo amato, e frutto della stirpe più pura: Abramo, Isacco, Giacobbe, Levi, Kehat, Amram, e poi Mosè, tutti i quali erano stati strumenti della Parola Divina [hussil bihim al-amr al-ilahi]. Affinché attraverso la Torah che gli è stata rivelata, possano diventare profeti, e chi non arriva alla profezia si avvicinerà al suo stato attraverso azioni lodevoli.[29] »

Secondo Abraham Maimonide, i viaggiatori sul “sentiero speciale” dovevano seguire uno stile di vita rigoroso, morale e disciplinato e avere la capacità di approfondire il significato più profondo e mistico delle Scritture. Abraham e Obadyah insistettero sull'adesione alla legge ebraica tradizionale come fondamento del percorso mistico. Questo potrebbe essere stato un modo per deviare le critiche al loro movimento esoterico influenzato dal sufismo musulmano.

Le virtù e i comportamenti morali da coltivare lungo il sentiero sono discussi sia da Abraham nel suo Kifaya che da Obadyah (meno sistematicamente) nel suo Trattato della Piscina, "a spiritual itinerary which owes much to the ethical manuals current among the Sufis: sincerity, mercy, generosity, gentleness, humility, faith, contentedness, abstinence, striving, solitude. Passing through ‘fear,’ ‘love,’ and ‘cleaving to God,’ he will be uplifted to true sanctity and will comprehend the nobleness of the bond between himself and God".[30]

Sebbene il nucleo delle pratiche seguite dai hasidim sia probabilmente universale per la maggior parte dei percorsi mistici, alcune delle tecniche specifiche riflettono l'influenza del modello islamico sufi, tra cui l'abluzione, la prostrazione, l'inginocchiamento, il pianto, l'apertura delle mani, l'orientamento verso l'arca, e le veglie e digiuni notturni. I ritiri solitari per quaranta giorni e notti, chiamati halwa, erano un'altra tecnica sufi adottata, durante la quale a volte praticavano l'"incubazione" (una tecnica di meditazione simile all'animazione sospesa).

Halwa fu enfatizzato da Abraham e Obadyah come il più alto dei percorsi mistici, in particolare l'isolamento interiore (halwa batina) che porta all'illuminazione interiore (nur batin) e alla comunione profetica (wusul nabawi) pur vivendo in compagnia di altre persone. Obadyah scrisse che la pratica spirituale dei patriarchi biblici prevedeva la meditazione solitaria, che gli hasidim imitavano attraverso la loro pratica di halwa. Un aspetto importante dell’halwa batina è il controllo della mente, che non dipende dalla corsa verso montagne o grotte. Può essere realizzato vivendo ovunque, ma mettono in guardia sull'importanza della discrezione nel salvaguardare la propria esperienza interiore:

« Renditi conto che lo stato che hai raggiunto o al quale ti sei avvicinato deve essere paragonato al caso di qualcuno che ha trovato un oggetto prezioso. Se è consapevole e apprezza il valore della sua scoperta, allora sarà sempre debitore all'Altissimo, che gli ha concesso questo [dono] senza [aver sofferto] né sforzo né difficoltà. Allora lo utilizzerà per perfezionare la sua anima, per amore di Colui che è stato misericordioso verso di lui...
Salvaguarda quindi questo [dono] o Cercatore, perché è un bene molto prezioso e pregiato... Rimani sincero e ritirati da quelle occupazioni che te ne allontanano mentre sei tra la tua famiglia e i tuoi parenti. Non credere, come i poveri in spirito, che l’isolamento [inqita] sia destinato a montagne e caverne e che semplicemente ritirandosi lì essi realizzeranno qualcosa, perché non è così. »
(Obadyah Maimonides, Treatise of the Pool, Fenton, trad., p. 93)

Obadyah scrive che dopo aver sottomesso le passioni ci si dovrebbe impegnare nella meditazione solitaria per raggiungere l'esperienza mistica della comunione divina:

« Quando rimarrai solo con la tua anima dopo aver domato le tue passioni, si aprirà davanti a te una Porta attraverso la quale contemplerai le meraviglie. Quando i tuoi cinque sensi esterni si riposeranno, i tuoi sensi interni si risveglieranno e vedrai una luce splendente emanata dallo splendore della Ragione. Percepirai voci potenti e terribili che lasciano l'uomo sconcertato. »
(Obadyah Maimonides, Treatise of the Pool, Fenton, trad., p. 90)

Lo stile di vita austero prescritto ai hasidim includeva la semplicità nell'abbigliamento e nella condotta, e il controllo del sonno, del mangiare e del parlare. Normalmente rinviavano il matrimonio almeno fino all'età di quarant'anni per perseguire più intensamente la loro vita spirituale.

Le cerimonie dikr, che prevedevano la danza e il canto, e che erano comuni ai sufi musulmani, non furono adottate da questi hasidim ebrei. Tuttavia il significato del dikr interiore, “dikr del cuore”, praticato durante gli halwa, è menzionato nei testi ebraici. Abraham he-Hasid scrive:

« Si può raggiungere il mondo spirituale attraverso la pratica della santità esteriore e interiore, l'amore eccessivo per Dio e il piacere nella Sua rimembranza [dikr] e nei santi nomi.[31] »

Fenton menziona anche un altro mistico che incorporò elementi sufi nei suoi insegnamenti sebbene lui stesso non fosse considerato un sufi. Il cabalista Abraham Abulafia (morto nel 1295 circa) insegnò la meditazione utilizzando il controllo del respiro e la ripetizione di formule sacre fino a raggiungere uno stato di mehikah (annullamento) del sé. Si presume che fosse stato influenzato da insegnanti musulmani e forse indiani che incontrò durante i suoi lunghi viaggi in Oriente.

Si potrebbe continuare a portare esempi di mistici e maestri ebrei che, per centinaia di anni, in tutto il mondo arabo e musulmano, furono influenzati dal vocabolario e dalle pratiche del sufismo musulmano. Basti dire che tracce del sufismo possono essere trovate negli insegnamenti di altri cabalisti primi e successivi, come Isaac di Akko (Acri) nel XIII e XIV secolo e Hayim Vital nel XVIII secolo, e molti altri nei secoli successivi che vissero in Egitto e in Terra Santa. La copia in caratteri ebraici della poesia persiana sufi, come quella di Rumi e Sa’adi, contribuì notevolmente alla circolazione delle idee sufi tra gli ebrei persiani. Tuttavia, lo specifico movimento hasidico ebraico sufi declinò, poiché vi fu una diminuzione della tolleranza all'interno della società musulmana in generale e la conoscenza dell'arabo classico diminuì tra gli ebrei. Le opere di Abraham he-Hasid e le sezioni mistiche degli scritti di Abraham Maimonide e di altri sufi ebrei caddero nell'oblio.

Tuttavia, per diverse centinaia di anni, l'influenza del misticismo islamico sufi continuò a infondere la vita spirituale ebraica in Egitto, Damasco, Gerusalemme, Baghdad e altrove nel mondo arabo, come dimostrato da numerosi manoscritti ritrovati che sintetizzavano l'approccio sufi e maimonideo con quello rabbinico e (più tardi) cabalistico. Presumibilmente, l'anonimo autore del manoscritto ebraico sufi del XV secolo al-Makala fi derekh ha-hasidut, che delinea le stazioni o i livelli del percorso mistico utilizzando una terminologia profondamente sufi, fu un maestro spirituale per gli ebrei del mondo arabo.

Lo studio affascinante e innovativo di Fenton sui hasidim dell'Egitto e sul sufismo tra gli ebrei in altre parti del mondo musulmano è importante perché dimostra la forte influenza dei maestri sufi islamici su un periodo poco conosciuto del misticismo ebraico. Questi hasidim usavano un vocabolario sufi, ma in ogni senso consideravano il loro insegnamento autentico per l'ebraismo; il sufismo rappresentava per loro un mezzo per entrare in contatto con la tradizione profetica, che (secondo Obadyah) era stata perduta dagli ebrei per molte generazioni. Questo studio di Fenton illumina anche la nostra comprensione del ruolo del maestro spirituale in tutti i successivi movimenti spirituali dell'ebraismo.

Il modello sufi di misticismo e maestria spirituale rientrò nell'ebraismo anche più a est, quando nel XVII secolo un ebreo di nome Sarmad si stabilì in India. Nato in una famiglia rabbinica di Kashan, in Persia, andò in India come commerciante e subì una trasformazione spirituale. Sarmad è ancora venerato in tutta l'India come musulmano, ma si sa poco dei dettagli della sua vita. Dai suoi scritti, tuttavia, ci sono prove che Sarmad era un mistico di prim'ordine, un santo che trascese i confini della religione e trovò il Signore dentro di sé. Scrisse dell'unione con il nome divino come unione con la musica divina interiore. Alcune fonti dicono che si convertì all'Islam e poi all'Induismo, ma se si leggono attentamente i suoi rubaiyat (poemi) è chiaro che, pur esaminando tutte le religioni, ne rifiutava i limiti esterni, abbracciando l'esperienza universale del divino che riconosceva come il vero insegnamento. Come i sufi musulmani, esaltò il potere dell'amore e cantò con coraggio il suo amore non convenzionale per il Signore e il maestro e ispirò gli altri a fare lo stesso. Nel 1659/60, a causa del suo approccio non ortodosso al culto, fu decapitato come eretico da Aurangzeb, l'imperatore Mogul dell'India.

Attraverso l'amore per il suo maestro, la coscienza di Sarmad fu elevata e sperimentò unione con lui. Usando la terminologia sufi, chiama il suo maestro “l'Amico”. Si riferisce sia al maestro che al Signore con questo termine:

L'amore dell'Amico mi ha esaltato
e mi ha reso inutile il favore degli altri.
Ero in fiamme come una candela in questa riunione,
e attraverso questo bruciare divenni suo intimo. [32]

Cerca un amico che non ti sarà mai infedele,
né ferirti il cuore nell'amicizia –
Uno che è incessantemente nel tuo abbraccio,
mai via nemmeno di un passo. [33]

Nel seguente rubai (poema) Sarmad esplora la relazione apparentemente paradossale tra il Signore e il maestro e poi offre la risposta pratica del mistico: Se hai amore, allora trascenderai la comprensione limitata della mente e sperimenterai l'unità del maestro e del Signore.

La follia del mio cuore è la perfezione della saggezza,
ma il caos dell'amore
è oltre la portata della mente:
L'oceano può essere contenuto in una brocca?
Impossibile, [la mia mente] dice,
anche se alcuni potrebbero affermarlo. [34]

Sarmad concorda sul fatto che, in definitiva, è impossibile comprendere con il nostro intelletto limitato come Dio possa manifestarsi in un essere umano. L'unico modo in cui possiamo comprendere questo paradosso è andare dentro, nelle regioni interiori, e vedere di persona come il microcosmo (il corpo umano) possa contenere il macrocosmo (il Signore e la Sua creazione). I ricercatori spirituali devono sperimentare questa verità da soli; altrimenti sembra davvero un gioco di immaginazione.

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Bibliografie & Glossari: 1  •  2  •  3  •  4  •  5  •  6  •  7  •  8  •  9  •  10  •  11
  1. Fenton, Treatise of the Pool, p. 3.
  2. Fenton, Treatise of the Pool, p. 54; nota 3 a p. 2.
  3. Isaac Myer, Qabbalah, p. 3.
  4. Ccfr. Bokser, Jewish Mystical Tradition, p. 74.
  5. Moses Maimonides, Guide of the Perplexed, Pines, III, 9; cit. in Heschel, Maimonides: A Biography, p. 245.
  6. Maimonide prese in prestito il termine Intelletto Attivo da Aristotele. Maimonide credeva che ci fossero dieci Intelligenze emanate da Dio che dirigono l'universo. L'ultima di queste, l'Intelletto Attivo, dirige la sfera fisica. Sosteneva che erano state create da Dio nel tempo e le equiparava agli angeli della tradizione rabbinica. L'Intelletto Attivo canalizza l'influenza divina verso il profeta o il mistico.
  7. Jacobs, Schocken Book of Jewish Mystical Testimonies, p. 45.
  8. Jacobs, Schocken Book of Jewish Mystical Testimonies, pp. 8–9.
  9. Le citazioni nelle pagine seguenti sono tratte dalla traduzione di Pines di Guide of the Perplexed, vol. 2, pp. 618–628 - che ho a mia volta ritradotto in italiano; cfr. Jacobs, Schocken Book of Jewish Mystical Testimonies, pp. 45–60. Per alcuni brani ho utilizzato la traduzione di Kaplan, pubblicata nel suo libro Meditation and the Bible, dove fa emergere più chiaramente il significato spirituale dei passaggi. Ho anche ritradotto la sfortunata e ambigua parola “apprensione” con comprensione, conoscenza, percezione o illuminazione. Cfr. comunque i relativi capitoli dei vari wikilibri in Serie maimonidea.
  10. Cfr. Kaplan, Meditation and the Bible, pp. 9–10.
  11. Jacobs, Schocken Book of Jewish Mystical Testimonies, pp. 50–51.
  12. Moses Maimonides, Mishneh Torah, yesodei ha-torah, 2:2, cit. in Kaplan, Meditation and the Bible, p. 120.
  13. Cfr. anche Jacobs, Schocken Book of Jewish Mystical Testimonies, p. 58.
  14. Jacobs, Schocken Book of Jewish Mystical Testimonies, pp. 58–59 - mia trad.
  15. The Book of Direction to the Duties of the Heart, III:4, p. 149; citato in Fenton, Treatise of the Pool, pp. 5–6.
  16. Fenton, Treatise of the Pool, p. 6.
  17. Fenton, Treatise of the Pool, p. 6.
  18. Kifayat al-abidin (Kifaya) (Compendium dei Servi di Dio), II, p. 290, cit. Fenton, Treatise of the Pool, p. 7. In una lettera della Genizah (Taylor-Schecter Genizah Collection, Cambridge University Library, 20.44), viene citato come "il capo dei Pietisti", Fenton, Treatise of the Pool, p. 7. Cfr. anche nota 27 a p. 57.
  19. Cfr. Fenton, Treatise of the Pool, p. 7.
  20. Kifaya II, p. 320, cit. Fenton, Treatise of the Pool, p. 8.
  21. Cfr. Fenton, Treatise of the Pool, p. 8.
  22. Lettera nella Taylor-Schecter Genizah Collection, Biblioteca dell'Università di Cambridge, 13 J 9.12, pubblicata da E. Ashtor, A History of the Jewish in Egypt and Syria, III (Gerusalemme, 1944–71), pp. 28–32. La lettera è indirizzata al rabbino Hayim, il cui padre era giudice alla corte di David Maimonide e presumibilmente anche pietista. I saluti vengono inviati sia a David che a Obadyah. Cit. in Fenton, Treatise of the Pool, p. 25 e nota 6 a p. 66.
  23. Cfr. Fenton, Treatise of the Pool, Introduction pp. 26–53, per una sintesi del Trattato della Piscina.
  24. Obadyah Maimonides, Treatise of the Pool, Fenton, trad., pp. 35–36 e nota 16 a p. 67. Scrive: "dawq is a Sufi technical term meaning ‘to grasp through mystical experience,’ cfr. Risala, I, p. 220. Moreover the term is frequently used by the Jewish Sufis to designate the esoteric sense of a verse. See nos. 47 and 58 of our [Fenton’s] ‘Some Judaeo-Arabic Fragments,’ and H. Corbin, L’Archange Empourpre, pp. 341–2. . . . Moses Maimonides claimed in the Introduction to his third volume of the Guide, Qafih, p. 449, that he had arrived at the comprehension of some of the esoterical mysteries of the Torah, the knowledge of which had practically disappeared."
  25. Obadyah Maimonides, Treatise of the Pool, Fenton, trad., p. 41.
  26. Sintetizzato da Fenton, Treatise of the Pool, p. 42 e nota 39 a p. 70.
  27. Obadyah Maimonides, Treatise of the Pool, Fenton, trad., p. 92. Fenton, nella sua nota a piè di pagina a questo passaggio, sostiene che il riferimento di Obadyah al mediatore o intercessore è alla Ragione, all’Intelletto Attivo, come mediatore tra il mondo sensuale e quello spirituale. Tuttavia, cita anche l'opinione opposta sostenuta dal famoso studioso Georges Vajda, autore dell’introduzione al volume di Fenton, secondo cui l’intercessore si riferisce al sayh o mentore spirituale. (Vajda in “The Mystical Doctrine of Rabbi Obadyah, Grandson of Moses Maimonides” in Journal of Jewish Spirituality, VI p. 221.) Fenton ammette anche che nella letteratura sufi, la Ragione è spesso personificata come il Profeta. Obadyah, scrivendo nel contesto ebraico, mette in parallelo Mosè con la Ragione. Pertanto il riferimento all’intercessore può essere inteso su due livelli: sia come Ragione (l’Intelletto Attivo o Parola), sia come maestro spirituale o mentore (Nota 88 alle pp. 123–24).
  28. Fenton, Introduction to Obadyah Maimonides, Treatise of the Pool, p. 9.
  29. Citato in Fenton, Introduction to Obadyah Maimonides, Treatise of the Pool, pp. 9–10.
  30. Kifaya, I, p. 142. Fenton osserva che questo itinerario corrisponde a mahafa, mahabba, ma’rifa del sufismo – “timore”, “amore” e “gnosis”. Fenton, Introduction to Obadyah Maimonides, Treatise of the Pool, p. 11.
  31. Lettera in Taylor-Schecter Genizah Collection, Cambridge University Library, Arabic 1b.27, pubbl. in Paul Fenton, “Some Judaeo-Arabic fragments of Rabbi Abraham he-Hasid” in Journal of Semitic Studies, XXVI (Manchester, UK: 1981), pp. 47–72, cit. in Fenton, Introduction to Obadyah Maimonides’ Treatise of the Pool, p. 17.
  32. Rubai 117, in Ezekiel, Sarmad, p. 261.
  33. Rubai 108, in Ezekiel, Sarmad, p. 259.
  34. Rubai 166, in Ezekiel, Sarmad, p. 272.
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