I promessi sposi/Peste

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Indice del libro

La peste è uno degli elementi fondamentali del romanzo e rientra nella "grande" storia che come un turbine vasto sconvolgerà la società e i destini dei nostri personaggi. L'analisi storica del Manzoni si estende sui capitoli 32 e 33 mentre nei capitoli successivi coinvolgerà direttamente le vicende della narrazione.

La peste, che colpisce l'Italia nel periodo compreso tra il 1628 e il 1630, diventa quasi il culmine di due grandi avvenimenti che avevano sconvolto il Nord Italia in quegli anni: la guerra dei trent'anni (che nel romanzo vede il culmine con la calata dei Lanzichenecchi) e la carestia.

Lo scopo del narratore è da un lato quello di rappresentar lo stato delle cose e dall'altro quello di far conoscere, per quanto si riesca, un tratto di storia patria più famoso che conosciuto. Manzoni spiega infatti che in ognuna delle molte relazioni contemporanee, siano omessi fatti essenziali e regni una strana confusione di tempi e di cose.

Il lavoro dello storico è quindi (parafrasando le parole dell'autore) quello di esaminare e confrontare quelle memorie per ottenere una serie concatenata degli avvenimenti, una storia, distinguendo e verificando i fatti più generali e più importanti per disporli nell'ordine reale e osservando la loro efficienza reciproca.

Le principali fonti utilizzate dal Manzoni sono il De peste quae fuit anno 1630 di Giuseppe Ripamonti, il De peste di Federico Borromeo e le opere del Tadino e del Rivola.

Il morbo è portato dai Lanzichenecchi: i primi casi si verificano in Lombardia sulla striscia di territorio percorsa dall'esercito; la gente inizia ad ammalarsi e a morire di mali violenti e strani nei quali i più anziani riconoscono quelli della peste che aveva colpito il milanese cinquantatré anni avanti, nota come peste di San Carlo (1576).

In seguito ai casi verificatesi nella terra di Chiuso e, successivamente a Lecco e a Bellano, il tribunale di sanità ordina un'ispezione che accerta la presenza delle brutte e terribili marche della peste. Il fatto viene riportato al governatore ma, come dice il Ripamonti, belli graviores esse curas (le preoccupazioni della guerra erano più gravi).

Tra la noncuranza della popolazione e la preoccupazione dei due medici (il Tadino e Senatore Settala) in autunno la peste entra a Milano. Alla morte del soldato italiano al servizio della Spagna portatore della peste in città seguono alcune morti tra i medici che lo curavano e tra le persone della casa in cui il soldato aveva alloggiato; tuttavia, l'arrivo dell'inverno e il rallentamento del contagio confermavano sempre di più la stupida e micidiale fiducia che non ci fosse le peste, portata avanti dal popolo e anche da alcuni medici.

Tuttavia, verso la fine del mese di marzo dell'anno 1630, il contagio ricomincia e aumenta di continua l'attività del lazzaretto che viene così affidato ai cappuccini sotto la presidenza del padre Felice Casati.

La peste è ormai conclamata ma essa viene accompagnata l'idea di quelle arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malìe: è il celebre delirio delle unzioni, confermato anche da un dispaccio inviato un anno prima del re Filippo IV, a cui nessuno aveva mai dato retta, ma che parlava di quattro francesi scappati da Madrid sospetti di spargere unguenti velenosi e pestiferi.

Il cardinale Federigo Borromeo l'11 giugno 1630 accetta di guidare una grande processione per le vie di Milano con le reliquie di San Carlo: da allora il contagio nella città, favorito dalla riunione di una così gran massa di persone, infuria e la mortalità è in continuo aumento, così come gli episodi di criminalità e la delinquenza dei monatti.

È proprio questa la Milano che Renzo attraversa quando entra in città per la seconda volta (la prima volta era stato nel capitolo 11).

È interessante notare come uno dei personaggi più influenti nell'intera opera, Don Rodrigo, sia personalmente colpito dalla peste, che lo uccise.

La peste non risparmia neanche il crudele Griso, fido servitore di don Rodrigo. Dopo aver fatto portare via il padrone morente da due monatti, viene lui stesso colpito dalla stessa sorte che aveva riservato il primo: viene colpito dalla peste per aver toccato i panni infetti del padrone nell'avida ricerca di denaro e portato via da alcuni monatti, dopo che i suoi compagni di bisboccia lo hanno gettato via senza pietà in un carro.

« in quell'ultima furia del frugare, aveva poi presi [...] i panni del padrone, e li aveva scossi, senza pensare ad altro, per veder se ci fosse danaro. C'ebbe però a pensare il giorno dopo, che [...] gli vennero a un tratto de' brividi, gli s'abbagliaron gli occhi, gli mancaron le forze, e cascò. Abbandonato da' compagni, andò in mano de' monatti, che, spogliatolo di quanto aveva indosso di buono, lo buttarono sur un carro; sul quale spirò, prima d'arrivare al lazzeretto, dov'era stato portato il suo padrone. »
(capitolo 33)