Alla base della religione greca vi sono, quindi, molteplici fondamenta: la cultura preistorica europea e quella degli invasori indoeuropei, le civiltà minoica e micenea nonché i contributi, come vedremo meglio più avanti, delle civiltà vicino-orientali.
Dal crollo della civiltà micenea (degli Achei), e il seguente periodo dei "secoli oscuri" e della penetrazione dei Dori, emergono le prime póleis (città) come atto spontaneo di aggregazione delle comunità greche.
« La pólis nasce dunque come risultato di un lungo e variegato processo come sviluppo di una forma comune di pólis, tra le diverse evoluzioni da ammettere delle più diverse e spontanee comunità nate dalla crisi e dopo la crisi dei palazzi micenei. » (Domenico Musti. Storia greca, p. 77)
Ciò che fondamentalmente differenzia la società micenea da quella delle póleis (πόλεις) è la forma di governo: al dominio centralizzato dal palazzo sede del re (wanáka ), subentra la comunità, aristocratica, degli opliti-contadini.
Il rito religioso del sacrificio subisce in questo quadro una profonda revisione.
« Antichissima e nel contempo postmicenea - e non senza rapporti con l'Oriente- è la forma particolare del sacrificio greco: il banchetto comunitario (a base di carne) delle persone, durante il quale vengono bruciate offerte per gli dei, soprattutto le parti non commestibili e le ossa. Proprio per questo l'elemento essenziale del santuario è l'altare-braciere a cielo aperto. Lo scambio di offerte non viene qui celebrato da una società gerarchicamente composta da divinità, re, sacerdoti e popolo comune: uomini e donne si dispongono tutti assieme, allo stesso livello, attorno all'altare, vivono l'esperienza della morte, onorano gli immortali e accettano, mangiando, la vita nel suo condizionamento: solidarietà dei mortali al cospetto degli immortali. Ciò significa una negazione dell'organizzazione micenea: nessun re sta più in alto di tutti gli altri, nessun sacerdote può servirsi delle porzioni sacrali. » (Walter Burkert. Op.cit., p. 143)
Al contempo il crollo della civiltà palaziale micenea libera antichissimi culti:
« Una processione fallica sarebbe stata impensabile nella decente iconografia del periodo palaziale.; eppure già testimonianze neolitiche indicano l'esistenza di simili costumi. » (Walter Burkert. Op.cit. p. 143)
Appaiono le prime statue in bronzo degli dèi nudi, e seppur Dioniso compare nella cultura religiosa micenea ora le «maschere corrono in divina disinibizione.»[1].
Molteplici tradizioni occorrono ora a spiegare i riti a diverse comunità che condividono, comunque, la medesima lingua[2] e
« solo un'autorità carismatica riusci a portare in ordine nella confusione di tali tradizioni. Per i Greci tale autorità si chiama Esiodo e, in maggior misura, Omero. È la poesia che, proveniente ancora dalla sfera della tradizione orale, ha creato e conservato l'unità spirituale dei Greci, fondendo in modo felice libertà e forma, spontaneità e rigore. Essere Greco significava essere colto, ma il fondamento di tutta la cultura fu "Omero". » (Walter Burkert. Op.cit. p. 253.)
Accanto al racconto "omerico", rimane fondante il culto che trova nel sacrificio il suo momento supremo. Non solo, la presenza dei filosofi occorre lungo tutta la storia della religione greca a reinterpretare lo stesso racconto in senso "teologico", anche attraverso una critica radicale dei contenuti "omerici"[3] e con significativi cambiamenti di prospettiva:
« Nel momento in cui il naturale e il divino si trovarono uniti in una sintesi, si cercò anche di superare il conflitto con i poeti; invece di attaccare Omero sembrò più opportuno conquistare l'antica saggezza come alleata. L'artificio con cui si giunse a questo risultato fu l'allegoria: immutabile presupposto fu il non-senso del mito, così come esso era narrato dai poeti, si ritiene però che il poeta abbia voluto esprime un altro pensiero recondito hyponoia che evidentemente sfugge all'ascoltatore al lettore comune, superficiale. Così viene indicato come primo allegorico un rapsodo Teagene di Reggio, che rispondeva direttamente alle esigenze di Senofane. Possediamo precise informazioni sull'impiego di tali metodi da parte di alcuni discepoli di Anassagora » (Walter Burkert. Op.cit., p. 563)
Se per la religione greca "omerica" la realtà è divisa tra gli esseri immortali (dèi) e quelli mortali (uomini), dove all'uomo è assegnato un preciso destino[4] che non deve superare, pena di sconfinare nella imperdonabile hýbris (ὕβρις)[5], da qui il motto delfico di «Conosci te stesso» (Γνῶθι σεαυτόν, gnôthi seautón) col significato di "non superare la tua condizione mortale" mettendoti sullo stesso piano degli dèi[6], con Platone il paradigma cambia: il filosofo ateniese del IV secolo a.C. assegna all'uomo un diverso posto nel mondo e, facendo leva sulle credenze proprie delle "religioni misteriche", consegna allo stesso la possibilità di divenire immortale, quindi di rendere sé stesso simile a un dio[7].
« A partire da Platone, e attraverso di lui, la religione è qualcosa di essenzialmente diverso da ciò che prima era stata. Per i Greci, come vediamo a partire da Omero, religione aveva sempre significato accettazione della realtà in modo ingenuo [...] Attraverso Platone la realtà perde effettualità in favore di un mondo superiore, incorporeo e immutabile, che deve valere come primario; l'Io si concentra in un'anima immortale, che nel corpo è straniera e imprigionata. » (Walter Burkert. Op.cit., p. 566)
La presenza del "mito" raccontato dai poeti, l'obbligatoria pratica cultuale cittadina e l'insegnamento teologico dei "filosofi", rappresenta la composita condizione in cui si trovava l'uomo greco di fronte al sacro:
« Venne trovata una duplice e comoda giustificazione: vi era una "teologia dei poeti", cui non era necessario credere, e una "teologia della pòlis" che era invece obbligo civile; a ciò si aggiunse, con la pretesa di assoluta verità, la "teologia naturale" dei filosofi, nei cui confronti era possibile sia l'impegno spirituale che il distacco scettico » (Walter Burkert. Op.cit., p. 452)
↑Qui non si fa riferimento, ovviamente, alla koinè, ovvero alla diffusione della varietà letteraria e quindi della lingua parlata dell'attico fenomeno occorso non prima del V secolo a.C. quanto al fatto che, come evidenzia Luciano Agostiniani:
« Ma per il primo millennio, le fonti (epigrafiche e altre) ci mostrano una congerie di dialetti più o meno distanti tra di loro- non tanto, però, da impedire la intercomprensione - con praticamente ogni centro caratterizzato dalla propria specifica parlata. » (Luciano Agostiniani Lingue, dialetti e alfabeti, in Storia Einaudi dei Greci e dei Romani vol. 4. Torino, Einaudi, 2008 p. 1151)
« Una è la stirpe umana, una quella divina, e da un'unica madre l'una e l'altra hanno respiro: ma un potere deciso, intero li divide: e l'uomo è nulla, ma il cielo, la dimora di bronzo, senza danno, dura eterna. Pure profondamente ci accostiamo agli immortali, per la grandezza della mente e per questa natura, se pure non sappiamo quale termine scriva il destino a questo nostro andare nella luce del giorno, nel cuore delle notti. » (Pindaro. Nemee, VI, 1-16. Traduzione di Enzo Mandruzzato. Milano, Bompiani, 2010, p. 417)
↑Per un breve approfondimento della nozione di hýbris cfr. la medesima voce curata da Carlo Del Grande vol.6 Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano, 2006 p. 5406-7. Per un ulteriore approfondimento cfr. dello stesso autore Hybris: colpa e castigo nell'espressione poetica e letteraria degli scrittori della Grecia antica /Da Omero a Cleante, Napoli, 1957.
↑Cfr., ad esempio, Jean-Pierre Vernant. Mito e religione in Grecia antica. Roma, Donzelli, 2009, p. 28.
« The main feature that characterizes traditional Greek religion before Plato is the distinction between gods and human beings, or immortals and mortals. Inspired by minority religious beliefs, Plato reacted against this presupposition and assigned to human beings the goal of assimilating themselves to god. » (Luc Brisson. Plato in Encyclopedia of Religion, vol.11. NY, Macmillan, 2004, p. 7181)