Italiano/Evoluzione

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L'italiano è una lingua neolatina, cioè derivata dal latino volgare parlato in Italia nell'antichità romana e profondamente trasformatosi nel corso dei secoli.[1]

Dal latino volgare ai volgari italiani[modifica]

Già in epoca classica esisteva un uso "volgare" del latino, pervenutoci attraverso testi non letterari, graffiti, iscrizioni non ufficiali o testi letterari attenti a riprodurre la lingua parlata, come accade spesso nella commedia.[2] Accanto a questo, esisteva un latino "letterario", adottato dagli scrittori classici e legato alla lingua scritta, ma anche alla lingua parlata dai ceti socialmente più rilevanti e più colti.[2]

Con la caduta dell'Impero romano e la formazione dei regni romano-barbarici, si verificò una sclerotizzazione del latino scritto (che diventò lingua amministrativa e scolastica), mentre il latino parlato si fuse sempre più intimamente con i dialetti dei popoli latinizzati, dando vita alle lingue neolatine, tra cui l'italiano.[3]

Gli storici della lingua italiana etichettano le parlate che si svilupparono in questo modo in Italia durante il Medioevo come "volgari italiani", al plurale, e non ancora come "lingua italiana". Le testimonianze disponibili mostrano infatti marcate differenze tra le parlate delle diverse zone, mentre mancava un comune modello volgare di riferimento.[4]

Il primo documento tradizionalmente riconosciuto di uso di un volgare italiano è un placito notarile, conservato nell'abbazia di Montecassino, proveniente dal Principato di Capua e risalente al 960: è il Placito cassinese (detto anche Placito di Capua o "Placito capuano"), che in sostanza è una testimonianza giurata di un abitante circa una lite sui confini di proprietà tra il monastero benedettino di Capua afferente ai Benedettini dell'abbazia di Montecassino e un piccolo feudo vicino, il quale aveva ingiustamente occupato una parte del territorio dell'abbazia: «Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti.» ("So [dichiaro] che quelle terre nei confini qui contenuti (qui riportati) per trent'anni sono state possedute dall'ordine benedettino").[1] È soltanto una frase, che tuttavia per svariati motivi può essere considerata ormai "volgare" e non più schiettamente latina: i casi (salvo il genitivo Sancti Benedicti, che riprende la dizione del latino ecclesiastico) sono scomparsi, sono presenti la congiunzione ko ("che") e il dimostrativo kelle ("quelle"), morfologicamente il verbo sao (dal latino sapio) è prossimo alla forma italiana, ecc. Questo documento è seguito a brevissima distanza da altri placiti provenienti dalla stessa area geografico-linguistica, come il Placito di Sessa Aurunca e il Placito di Teano.[5]

L'influenza della Scuola siciliana[modifica]

Uno dei primi casi di diffusione sovraregionale della lingua fu la poesia della Scuola siciliana, scritta in siciliano "illustre" perché arricchito da francesismi, provenzalismi e latinismi,[6] da numerosi poeti (non tutti siciliani) attivi prima della metà del Duecento nell'ambiente della corte imperiale. Alcuni tratti linguistici con questa origine sarebbero stati adottati anche dagli scrittori toscani delle generazioni successive e si mantennero per secoli o fino ad ora nella lingua poetica (e non) italiana: dalle forme monottongate come core e loco ai condizionali in -ia (es. saria per sarebbe) ai suffissi in uso in Sicilia derivati dal provenzale come -anza (es. alligranza per allegria, membranza, usanza, adunanza) o -ura (es. freddura, chiarura, verdura) e altri ancora[7][8][9] o vocaboli come il verbo sembrare per parere che per Dante era "parola dotta" (di origine provenzale, giunta anch'essa all'italiano attraverso la lirica siciliana).[10] La Scuola siciliana insegna una grande produttività dell'uso dei già menzionati suffissi e dei prefissi (questi ultimi per lo più derivanti dal latino) come dis-: disfidarsi, s-: spiacere, mis-: miscredere, misfare e tanti altri ancora. Erano già presenti abbreviazioni come dir (dire) o amor (amore) e altri latinismi; ad esempio la parola amuri, in siciliano, si alternava con amore (latinismo).[6] Il contributo della scuola siciliana fu notevole:

« ...Qualunque cosa gli italiani scrivano, viene chiamato siciliano...(tradotto) »
(Dante Alighieri, De vulgari eloquentia I, XII, 2)

Dal volgare toscano all'italiano[modifica]

« ... del bel paese là dove 'l sì suona »
(Dante Alighieri, Inferno, canto XXXIII, v. 80)

L'assetto dell'italiano discende, in sostanza, da quello del volgare fiorentino trecentesco. Il ruolo di questo volgare nella formazione dell'italiano è tanto importante che in alcuni casi gli storici della lingua descrivono il fiorentino trecentesco già come "italiano antico" e non come "volgare fiorentino".

Tra i numerosi tratti che l'italiano riprende dal fiorentino trecentesco, e che erano invece estranei a quasi tutti gli altri volgari italiani, si possono citare per esempio, a livello fonetico, cinque elementi discriminanti individuati da Arrigo Castellani:[11]

  • i "dittonghi spontanei" ie e uo (in realtà epentesi di /j, w/: piede e nuovo con /jɛ, wɔ/, invece di pede e novo);
  • l'anafonesi (tinca invece di tenca);
  • la chiusura di e pretonica (di- invece di de-);
  • l'esito del nesso latino -RI- in /j/ invece che in r (febbraio invece di febbraro),
  • il passaggio di ar atono a er (gambero invece di gambaro).

Tuttavia, già dalla fine del Trecento la lingua parlata a Firenze si distaccò da questo modello, che successivamente sarebbe stato codificato da letterati non fiorentini, a cominciare dal veneziano Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua (1525), e usato come lingua comune per la scrittura in tutta Italia a partire dalla seconda metà del Cinquecento: nelle parole di Bruno Migliorini, «Se leggiamo una pagina di prosa, anche d'arte, degli ultimi anni del Quattrocento o dei primi del Cinquecento, ci è di solito abbastanza facile dire da quale regione proviene, mentre per un testo della fine del Cinquecento la cosa è assai malagevole».[12]

A partire dal Cinquecento, le espressioni "toscano" e "italiano" sarebbero state utilizzate come sinonimi[13].

Al Seicento appartiene il primo trattato dedicato non ai volgari italiani o a uno o più di tali volgari, ma alla lingua italiana in quanto tale: Delle osservazioni della lingua italiana di Marcantonio Mambelli, detto il Cinonio.

L'italiano avrebbe ricoperto anche in Corsica (Francia) un ruolo di prestigio, in qualità di lingua di cultura, religione e per la comunicazione ufficiale, fino alla sua graduale sostituzione col francese avvenuta ufficialmente nel 1859[14][15]; in Sardegna, ove il ruolo di lingua tetto era ormai da tempo ricoperto invece dallo spagnolo, sarebbe occorso nel tardo Settecento un processo d'intensa italianizzazione a partire dalla gestione sabauda, interessata ad allacciarne i rapporti col Piemonte e, così facendo, la sfera culturale italiana[16][17][18].

Dal Risorgimento a oggi[modifica]

L'italiano rimase per lungo tempo soprattutto la lingua scritta dei letterati che, per le loro opere, avevano scelto di utilizzare il modello letterario del Petrarca. Fu Pietro Bembo, nel Cinquecento, a proporre agli altri letterati italiani, come lingua comune letteraria, il fiorentino del Trecento del Petrarca. La sua proposta rientrava nella cosiddetta "questione della lingua", ovvero la discussione allora in corso su quale lingua comune si potesse adottare in Italia per la letteratura, e risultò quella maggiormente accolta dagli altri letterati italiani.[19] La discussione allora in corso, in cui avrebbe infine avuto la meglio la posizione del Bembo, non verteva su quale lingua comune potessero adottare gli italiani, bensì in quale lingua comune si potesse scrivere la prosa e la letteratura.

Nelle ricostruzioni dei linguisti, fino alla seconda metà dell'Ottocento solo fasce molto ridotte della popolazione italiana erano in grado di esprimersi in italiano. Come riportato da Sergio Salvi, «Nel 1806, Alessandro Manzoni, in una lettera a Fauriel, confidava che l'italiano "può dirsi quasi come lingua morta"».[20] Più tardi, nel 1861, secondo la stima di Tullio De Mauro,[21] era in grado di parlare in italiano solo il 2,5% della popolazione italiana. Nella valutazione di Arrigo Castellani, alla stessa data la percentuale era invece del 10%.[22]

Il dibattito risorgimentale sull'esigenza di adottare una lingua comune per l'Italia, che proprio allora stava nascendo come nazione, vide il coinvolgimento di varie personalità come Carlo Cattaneo, Alessandro Manzoni, Niccolò Tommaseo e Francesco De Sanctis.[23]

Si deve in particolare al Manzoni l'aver elevato il fiorentino a modello nazionale linguistico, con la pubblicazione nel 1842 de I promessi sposi, che sarebbe diventato il testo di riferimento della nuova prosa italiana.[23] La sua decisione di donare una lingua comune alla nuova patria, da lui riassunta nel celebre proposito di «sciacquare i panni in Arno», fu il principale contributo di Manzoni alla causa del Risorgimento.[24]

Fra le sue proposte in seno al dibattito sull'unificazione politica e sociale dell'Italia, egli sosteneva inoltre che il vocabolario fosse lo strumento più idoneo per rendere accessibile a tutti il fiorentino a livello nazionale.[25]

« Uno poi de’ mezzi più efficaci e d’un effetto più generale, particolarmente nelle nostre circostanze, per propagare una lingua, è, come tutti sanno, un vocabolario. E, secondo i princìpi e i fatti qui esposti, il vocabolario a proposito per l’Italia non potrebbe esser altro che quello del linguaggio fiorentino vivente. »
(Alessandro Manzoni, Dell'unità della lingua e dei mezzi di diffonderla, 1868)

In seguito, fattori storici quali l'unificazione politica, la mobilitazione e il mescolamento degli uomini nelle truppe durante la prima guerra mondiale, la diffusione delle trasmissioni radiofoniche hanno contribuito a una diffusione graduale dell'italiano. Nella seconda metà del Novecento in particolare, la diffusione della lingua è stata accelerata anche grazie al contributo della televisione e alle migrazioni interne dal Sud al Nord.[26] Fondamentale è stato il divieto di utilizzare con funzione pubblica (scuola, atti pubblici, ecc.) i parlari italiani e le lingue delle minoranze linguistiche; gli insegnanti furono (e lo sono ancora) lo strumento attraverso cui tali strumenti di espressione furono minorizzati, essendo considerati "dialetti" in posizione subordinata, quando non "mala erba" da estirpare.[27] Solo con la Costituzione repubblicana del 1947 è stata riconosciuta in Italia la presenza di altre lingue oltre la lingua ufficiale (italiano) e vietata la discriminazione su basi linguistiche (art. 3, 6 e 21 della Costituzione italiana).[28]

Note[modifica]

  1. 1,0 1,1 Luca Serianni, Italiano/Evoluzione, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
  2. 2,0 2,1 Villa, cit., p. 7.
  3. Villa, cit., p. 9.
  4. Volgari medievali, Treccani.it
  5. Placiti campani
  6. 6,0 6,1 Zdeňka Zlinská, Scuola poetica siciliana e Iacopo da Lentini (PDF), su is.muni.cz, 2006.
  7. Storia dell'italiano letterario, su docsity.com.
  8. Costanzo di Girolamo, Scuola poetica siciliana, metrica, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
  9. La letteratura italiana prima di Dante (PDF), su istitutoprimolevi.gov.it (archiviato dall'url originale il 28 dicembre 2017).
  10. Antonietta Bufano, parere, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
  11. Arrigo Castellani, Nuovi testi fiorentini del Dugento, Firenze, Sansoni, 1952, vol. 1, pp. 21-34.
  12. Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 1960, p. 303.
  13. toscano, in Treccani.it – Vocabolario Treccani on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
  14. Patrizia Bertini Malgarini, Italiano nel mondo, su treccani.it, Treccani, 2011.
  15. Olivier Durand, La lingua còrsa. Una lotta per la lingua, Brescia, Paideia, 2003, p. 42-43.
  16. «La dominazione sabauda in Sardegna può essere considerata come la fase iniziale di un lungo processo di italianizzazione dell'isola, con la capillare diffusione dell'italiano in quanto strumento per il superamento della frammentarietà tipica del contesto linguistico dell'isola e con il conseguente inserimento delle sue strutture economiche e culturali in un contesto internazionale più ampio e aperto ai contatti di più lato respiro.» Loi Corvetto, Ines. I Savoia e le "vie" dell'unificazione linguistica. Citata in Putzu, Ignazio; Mazzon, Gabriella (2012). Lingue, letterature, nazioni. Centri e periferie tra Europa e Mediterraneo, p.488
  17. «L'italianizzazione dell'isola fu un obiettivo fondamentale della politica sabauda, strumentale a un più ampio progetto di assimilazione della Sardegna al Piemonte.» Amos Cardia, S'italianu in Sardìnnia. Candu, cumenti e poita d'ant impostu: 1720-1848; poderi e lìngua in Sardìnnia in edadi spanniola, Ghilarza, Iskra, 2006, p. 92.
  18. «En aquest sentit, la italianització definitiva de l'illa representava per a ell l'objectiu més urgent, i va decidir de contribuir-hi tot reformant les Universitats de Càller i de Sàsser, bandejant-ne alhora els jesuïtes de la direcció per tal com mantenien encara una relació massa estreta amb la cultura espanyola. El ministre Bogino havia entès que només dins d'una Universitat reformada podia crear-se una nova generació de joves que contribuïssin a homogeneïtzar de manera absoluta Sardenya amb el Piemont.» Joan Armangué i Herrero, Represa i exercici de la consciència lingüística a l'Alguer (ss.XVIII-XX), I.1, Cagliari, Arxiu de Tradicions de l'Alguer.
  19. Lorenzo Renzi e Alvise Andreosi - «Manuale di linguistica e filologia romanza» - nuova edizione, editore Il Mulino, Bologna, anno 2015, pagina 44 e 45
  20. Sergio Salvi - L'Italia non esiste - Editore CAMUNIA, Firenze 1996, pag. 112
  21. De Mauro 1970, p. 43.
  22. Arrigo Castellani, Quanti erano gli italofoni nel 1861?, in Studi linguistici italiani, n. 8, 1982, pp. 3-26.
  23. 23,0 23,1 Gilles Pécout e Roberto Balzani, Il lungo Risorgimento: la nascita dell'Italia contemporanea, Pearson Italia, 1999, p. 242.
  24. Angelo de Gubernatis, Alessandro Manzoni: studio biografico, Le Monnier, 1879, pp. 225-227.
  25. La questione della lingua e la proposta di Manzoni, su viv-it.org.
  26. De Mauro 1970.
  27. Tullio De Mauro, Distanze linguistiche e svantaggio scolastico. In Adriano Colombo, Werther Romani (a cura di), “È la lingua che ci fa uguali”. Lo svantaggio linguistico: problemi di definizione e di intervento, Quaderni del Giscel, La Nuova Italia, Firenze 1996, pp.13-24 http://giscel.it/wp-content/uploads/2018/04/Tullio-De-Mauro-Distanze-linguistiche-e-svantaggio-scolastico.pdf
  28. Articolo 6: lingue da tutelare di Silvana Schiavi Fachin: [...] “Quando nel 1991 il Parlamento fece un primo esitante passo con l’approvazione da parte della Camera dei Deputati di un primo testo di tutela – la legge restò poi “ibernata” in Senato per ben otto anni – si sollevò, come scrisse Tullio De Mauro, “il coro agitato di intellettuali legati a un’ottica monolingue e comunque ostili a ogni presa in carico dei problemi linguistici del Paese…”. http://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/servizi/articolo-6-lingue-tutelare/